Le parole che usiamo hanno la capacità di far trasparire molto di noi: le nostre intenzioni, il nostro orizzonte culturale, il nostro immaginario. Tante volte abbiamo riflettuto sull’utilizzo delle parole, soprattutto quando si parla di migrazioni, e ancora sentiamo la necessità di tornare su questo argomento.
Da poco il Ministero dell’Interno ha pubblicato il bando per la gestione delle strutture di Gjader e di Shengjin in Albania, oggetto del protocollo firmato nel Novembre scorso fra Italia e Albania.
L’accordo, ricordiamo, prevede la costruzione in territorio albanese di tre strutture: la prima, vicina al porto di Shengjin, sarà preposta all’identificazione dei migranti soccorsi in mare dalle navi della Marina italiana, un’altra all’attuazione delle cosiddette procedure accelerate di frontiera e infine la terza struttura ospiterà un Centro di Permanenza per il Rimpatrio. Sempre secondo l’accordo, ad andare in Albania saranno solamente gli uomini adulti soccorsi e identificati direttamente in mare dalle autorità italiane – dunque non dalle navi delle ONG -; questi non raggiungeranno le coste Italiane e saranno trasferiti direttamente ai centri di cui sopra.
La finalità è chiara: ridurre il più possibile il numero delle persone migranti che toccano il suolo italiano.
Strutture non d’accoglienza
Partendo da questo assunto, si nota come la narrazione attorno a ciò sia pesantemente influenzata da questo orizzonte, da questo obiettivo che il governo si pone.
Nonostante questo accordo e tutto ciò che ne deriva, rappresentino una forma di esternalizzazione dei confini, volta principalmente a rafforzare la politica del rifiuto, in relazione ai centri sopra citati, si parla ancora di strutture di accoglienza. La sovrapposizione fra il termine “accoglienza” e l’istituto della detenzione amministrativa contribuisce a produrre l’impoverimento che l’accoglienza stessa sta subendo: l’accoglienza non coincide infatti con l’identificazione delle persone, né si può ridurre alle “veloci” procedure burocratiche la cui vera finalità – altro che verificare chi ha diritto a rimanere e chi no – è il rimpatrio. Sovrapponendo le pratiche di rifiuto sistemico al termine accoglienza, si rischia di identificare nelle prime l’unico modello possibile, rinunciando all’idea che possano essere promosse politiche di accoglienza alternative.
Noi e loro
La narrazione fuorviante non si ferma a questo. In particolare, in un articolo di Gabanelli e Ravizza, uscito lunedì 25 Marzo per il Corriere della Sera, incentrato sul giro di affari che ruota attorno alla costruzione e alla gestione delle strutture italiane in Albania, si cerca di mettere in luce le falle dietro questo sistema a partire dall’impossibilità di garantire un funzionamento efficiente dei centri: l’impossibilità di effettuare i rimpatri previsti costituirebbe infatti il principale tallone di Achille dell’accordo.
Dal nostro punto di vista, strutture di questo tipo sono sbagliate non perché sono inefficienti, ma perché si basano su una visione esecrante della migrazione. Tuttavia, vogliamo porre il focus sull’utilizzo di alcune espressioni apparentemente neutre. “Su 150mila arrivi ne abbiamo riportati a casa 4753”; “passati i 18 mesi i migranti che non si è riusciti a espellere devono essere riportati in Italia e a piede libero”.
Ci interessa qui mostrare la continuità fra le parole che utilizziamo e il contesto politico in cui ci troviamo. Espressioni come quelle citate evidenziano come le persone migranti sono considerate come un qualcosa di cui l’Italia deve farsi carico, come oggetti da spostare da un luogo all’altro, in un’intrinseca condizione di illegalità.
L’idea è sempre la stessa: da un lato c’è un noi, dall’altro un loro, gruppi contrapposti divisi da presunte frontiere geografiche, linguistiche o “culturali”, frontiere da “difendere”. Un’idea che è alla base delle politiche migratorie di questo governo, ma anche di quelli che l’hanno preceduto. Quel loro, definito carico residuale dall’attuale ministro dell’Interno, viene ancora oggi narrato come un corpo estraneo e diverso da quel “noi” composto da persone italiane bianche. Si mette ancora in luce una diversità, come se fosse una condizione naturale e non il prodotto di una marginalizzazione sistematica e sistemica.
“Clandestino”, ancora
Infine, nello stesso articolo ritorna il termine “clandestino”. Sappiamo perfettamente come da tempo il giornalismo abbia ripreso ad utilizzare questo sostantivo in maniera impropria per definire le persone migranti, senza specificare mai se chi scrive o il giornale stesso si dissoci dal concetto svilente che la parola porta dietro con sè. Nonostante nell’agosto dello scorso anno la Cassazione abbia dichiarato discriminatorio questo uso del termine clandestino, purtroppo si continua ad utilizzarlo, perpetuando più o meno consciamente un immaginario criminalizzante di chi migra e della migrazione stessa. Ancora una volta le persone tacciate di “clandestinità” sono quelle che ancora devono ancora fare richiesta d’asilo e la cui condizione, per tanto non può essere definita “irregolare”, senza poi specificare che l’irregolarità è generata da un sistema fallace di gestione delle richieste di asilo e dei permessi di soggiorno, complicato ulteriormente dal cosiddetto Decreto Cutro.
E’ importante riflettere sulla narrazione delle migrazioni, affinché anche il racconto critico delle politiche migratorie non riconfermi l’idea su cui si basano proprio nel periodo in cui il tema della detenzione amministrativa ai danni delle persone migranti è tornato al centro del dibattito a causa di recenti fatti di cronaca nera all’interno dei CPR e del protocollo siglato con l’Albania.
Alle persone migranti, guardando al funzionamento del protocollo tra Italia e Albania, non deve essere permesso di toccare il suolo italiano. Questo avviene per difendere le frontiere, per una presunta diversità intrinseca di valori, perché chi migra rischierebbe di restare a piede libero pronto a delinquere, per tutta una serie di ragioni che sappiamo essere alla base di un radicato razzismo strutturale. Esso passa per le nostre istituzioni, come attraverso le nostre narrazioni; utilizziamo, allora, le parole giuste affinché questo razzismo inizi a non passare più.