
di Stefania N’Kombo José Teresa
Con la sentenza della Cassazione si conclude un lungo capitolo iniziato nell’aprile del 2016, quando a seguito del trasferimento a Saronno di 32 richiedenti asilo, l’allora sindaco di Saronno il leghista Alessandro Fagioli organizzò una manifestazione contro questa scelta. Erano gli anni del Governo Renzi, in cui la retorica contro la migrazione stava subendo una crescita esponenziale
«Saronno non vuole i clandestini. Vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni e aumentano le tasse, Renzi e Alfano complici dell’invasione», così recitavano i cartelli che lanciavano la manifestazione rimasti affissi per un mese, il segretario della Lega Nord di Saronno aveva anche rilasciato dichiarazioni ostili all’accoglienza dei «clandestini»: ciò è stato materiale da cui le associazioni ASGI e Naga sono partite per chiedere risarcimento al partito per molestie manifestamente razziste subite dai 32 richiedenti asilo.
Questa sentenza, in questo preciso momento storico, ha un ruolo non di poco conto. Stiamo assistendo da mesi nella comunicazione da parte degli esponenti politici, ma anche nel mondo dell’informazione, a un ritorno all’utilizzo amplificato, quasi parossistico, del termine clandestino. Secondo il Testo Unico 286/98, citato nella sentenza emessa in primo grado dal Tribunale Milano e ripresa dalla Cassazione, il termine clandestino «individua la posizione di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni normative che regolano l’immigrazione (rapportabile al reato contravvenzionale di cui all’art. 10-bis d.lgs. 286/98)». In molti casi, come quello a cui fa riferimento questo episodio, il termine viene esteso a tutti i migranti con riferimento alle modalità di arrivo, dimenticando che l’iter di regolarizzazione continua con le richieste di asilo o di protezione internazionale. Secondo la sentenza della Cassazione, i 32 migranti giunti a Saronno nel 2016, essendo richiedenti asilo, non potevano essere identificati con il termine clandestini, l’utilizzo di quella definizione, pertanto risulta discriminatorio.
Il lavoro portato avanti da ASGI e Naga è stato fondamentale, affinché venisse riconosciuto, anche legalmente, come il termine «clandestino» possa essere veicolo di trasmissione di messaggi discriminatori sulla base della provenienza o l’etnia. Ma le ragioni dietro questo lavoro – è importante ricordarlo – sono ben più profonde, vanno oltre questo episodio e fanno parte integrante della storia del movimento antirazzista.
Quello del riconoscimento del linguaggio discriminatorio, xenofobo e razzista è un discorso che va al di là della giurisprudenza. Per quanto la controparte abbia ripetuto più volte che la manifestazione in sé o le parole d’ordine della stessa non abbiano comportato alcuna discriminazione nelle procedure di regolarizzazione dei migranti, non si può ignorare come questa retorica sia in grado di orientare l’opinione pubblica a scapito del mantenimento dei diritti delle persone migranti e non. L’utilizzo del termine clandestino, come è spiegato bene qui questo articolo, rivela una precisa scelta politica di alimentare la retorica razzista dell’invasione e legittimare il nesso semantico tra migrante-clandestino-criminale. Un linguaggio che si avvale di termini in grado di costruire un immaginario preciso e che continuano a creare una separazione tra un noi, ad esempio come italiani e italiane «autoctoni e autoctone», e loro, di cui fanno parte le persone migranti, italiane e italiani di origine straniera con e senza cittadinanza, è un linguaggio che alimenta la xenofobia e il razzismo.
E’ importante ribadire come questa retorica sia una delle principali espressioni di un razzismo strutturale che incide pesantemente sulla vita di troppe persone e per quanto questa sentenza sia un primo importantissimo passo nel mondo della giurisprudenza; bisogna anche andare oltre lavorare su un’educazione che generi un cambiamento culturale affinché determinate parole non vengano più utilizzate, indipendentemente dal loro significato giuridico. Per questo continuiamo a richiamare gli esponenti della politica e i professionisti e le professioniste del mondo della comunicazione e dell’informazione alle proprie responsabilità, a partire dalle parole che si sceglie di utilizzare, con la consapevolezza dei vari livelli semantici che queste racchiudono e sprigionano.
Il linguaggio ha la capacità di plasmare nuovi significati e termini come «clandestino» non possono più essere considerati solo parole.
Foto di Dietmar Rabich / Wikimedia Commons / “Rome (IT), Corte Suprema di Cassazione — 2013 — 3787” / CC BY-SA 4.0