
Ancora una volta il razzismo fa un’invasione di campo negli eventi sportivi.
Sara Curtis, nuotatrice italiana con madre cittadina nigeriana, in una recente intervista rilasciata dopo la sua vittoria a Singapore, tra i vari argomenti affrontati, racconta del razzismo che ha subito in passato, soprattutto sui social: “Mi sono resa conto di essere la prima atleta mul*tta della nazionale italiana di nuoto. Ci sono state frasi che mi hanno ferito, come per esempio: Il tuo record (nei 100 stile libero) non è italiano, è nigeriano, che mi sembra un po’ folle, visto che sono nata qui e gareggio per l’Italia.”. Sottolinea anche come lo sport diventi uno strumento per reagire al razzismo: “[…] Il nuoto mi aiuta a scaricarmi. Per esempio, quando ho ricevuto i commenti razzisti sui social, sono riuscita a sfogare in acqua l’amarezza.”
Parole molto simili sono state usate, in una storia su Instagram, anche dal capitano dell’ItalBasket under 20, David Torresani, che di recente ha portato la sua squadra a una vittoria storica al Campionato Europeo di basket: “Grazie per i commenti razzisti, ci avete dato la carica”.
Quei commenti razzisti a cui fa riferimento sono stati diffusi sempre sui social, sotto alcuni post su Instagram in cui si presentava la nazionale di basket, composta in larga parte da persone afrodiscendenti.
Commenti con cui ha avuto a che fare anche la giovanissima campionessa dell’atletica leggera Kelly Doualla, che ha appena vinto l’oro ai Campionati europei under 20 di Tampere (Finlandia) dei 100 metri. Nata da cittadini italiani originari del Camerun, la 15enne in un’intervista parla della sua esperienza con il razzismo: “Anch’io vengo attaccata perché sono nera, ma certe cose mi scivolano via. Le evito, non le leggo. Ecco perché ammiro le pallavoliste Egonu e Sylla: sanno come respingere qualsiasi critica.”
Tutte queste dichiarazioni tornano a denunciare due grossi problemi che colpiscono la società italiana: da una parte confermano per l’ennesima volta come il razzismo sia un problema sociale e culturale, che riguarda un’ampia parte della popolazione, dall’altra evidenziano la scarsa abitudine in Italia alla rappresentazione della diversità nei media mainstream.
Non è la prima volta che parliamo di sport e razzismo: il nostro database documenta numerosi casi in cui giocatori o tifosi usano slur razzisti contro gli avversari, che, spesso, nel dibattito pubblico si minimizzano derubricandoli a uno “sfogo del momento”.
Tuttavia, casi come questi ci mostrano, ancora una volta, il carattere pervasivo del razzismo: questi commenti non provengono dal campo di gioco o dalle tribune sportive, ma da un ambiente esterno, i social networks appunto, che presuppongono una mediazione del pensiero prima di essere scritto. Si tratta, dunque, di una volontà precisa di esprimere una visione del mondo che nega la pluralità, la rigetta categorizzandola come diversità.
La cattiveria di questo tipo di commenti nasce da una profonda dissonanza cognitiva tra ciò che si pensa, di una precisa visione semplificata dell’Italia e della sua popolazione, e ciò che, invece, l’Italia è effettivamente: una popolazione varia, complessa e sfaccettata, che non può essere incasellata in un’etichetta univoca. Non sono commenti legati all’evento sportivo in sé, ma vanno a colpire la persona, in quanto rappresentante di una realtà che non si vuole accettare.
L’eco mediatica che il razzismo denunciato da questi atleti sta avendo, soprattutto grazie ai loro risultati sportivi, contribuisce anche a sfaldare diverse rappresentazioni propagandate dalla retorica populista; con buona pace di alcuni europarlamentari che affermano che questi atleti avrebbero risonanza solo per le loro origini e che in fondo non sono italiani. Molti dei commenti razzisti riportati, infatti, non riconoscono questi atleti come “veri” cittadini italiani, perché non hanno determinati tratti somatici. Così i social, ancora una volta, diventano il luogo di sfogo di retoriche retrograde che evocano il razzismo biologico di altri tempi.
I racconti della vita quotidiana di questi atleti e delle storie delle loro famiglie contribuiscono a decostruire una mentalità razzista ancora diffusa, che rappresenta la persona razzializzata come qualcuno che viene da lontano, estranea al tessuto sociale e con una fede religiosa (non cristiana) sospetta. Le sportive e gli sportivi citati sono tutti nati in Italia, partecipano attivamente alla vita sociale e le loro credenze religiose sono irrilevanti. Sono volti e storie che alimentano un nuovo racconto, di un’Italia plurale e interculturale.