di Giuseppe Faso
Nel giorno della scomparsa di Daniel Kahneman, mentre – come postumo omaggio a chi ha scritto Pensieri lenti e veloci e Rumore – alcuni di noi dedicavano un po’ di energie per rallentare la velocità dei pensieri o cercare di contenere la dispersione dei giudizi, dalle agenzie di stampa arrivava uno dei tanti proclami di uno tra i politici eccellenti nel pensare così veloce da rimanere storditi per il bang del muro del suono. E così, poche ore dopo aver letto il messaggio del presidente Mattarella alla scuola di Pioltello, il vicepremier Salvini è intervenuto per proporre un tetto alla presenza di bambini non autoctoni nelle scuole e poco dopo ha ribadito il suo pensiero veloce sulla chiusura della scuola di Pioltello, mentre il ministro Valditara riprendeva a modo suo l’uscita sul tetto (ma di questo parleremo a parte).
La velocità del pensiero e i suoi danni
Sarà bene ricordare che la velocità di un pensiero non si misura con un cronometro, ma con la mancanza di attenzione, di resistenza alle illusioni cognitive, e l’affidamento lesto a impressioni non verificate ed euristiche fallaci. Verificare il rischio di tali euristiche porta a ritardare il pensiero e a prendere decisioni affidandosi al sistema mentale 2, quello che costa un po’ di sforzo ma ripaga favorendo calcoli più complessi e comprensioni meno scorrette.
Vediamo molti uomini e donne impegnati in politica mostrare una forte inclinazione verso il sistema 1, quello sordo a competenze, sfumature, controlli e complessità. Favoriscono tale distorsione vari fattori sovraeccitanti, tra cui il sistema dei media e la costante presenza sui social. Se è necessario dire subito la propria sull’ultimo stimolo è difficile andare oltre una prima impressione, la ripetizione stereotipa di banalità, il ricorrere a immagini, frasi e posizioni disponibili piuttosto che processarle grazie a una qualità che vediamo all’opera sempre meno: l’autocontrollo.
Quando pochi decenni fa ci si lamentava per la freddezza, la lentezza nelle reazioni, l’elaborazione complessa delle posizioni in una classe politica che a molti sembrava distante dai bisogni e dagli umori del paese, non si sospettava quanto più rischioso potesse essere per la vita civile, l’efficacia di governo e i conti dello Stato scivolare nelle mani di decisori che sembrano impegnati in gare olimpiche di velocità di reazione e di salto alle conclusioni: che poi conclusioni a rigore non sono, ma apriori schematici, poverissimi davanti alla ragione e alla dimensione civica.
Campi cognitivi minati
Kahneman e Tversky, che avevano combattuto da ragazzi nell’esercito israeliano, incoraggiavano a riconoscere le tracce che indicano di muoversi in un campo minato cognitivo (in varie parti d’Italia si dice in maniera meno militare, ma l’avviso una volta era proverbiale: “stai pestando una m….”). È quello che si vorrebbe maturassero i nostri futuri politici, visto come si sono ridotti quelli che abbiamo.
Affidarsi al sistema di pensiero veloce non aiuta a comprendere e affrontare operativamente un problema, ma ha altre ricompense. Per esempio, a parte la facilità di presentare una posizione semplice da comunicare e coerente, il consenso immediato di chi non sa che farsene di affidarsi al sistema 2 (e cioè di evitare di pestare eccetera). Grandi perplessità, fino all’irritazione e alla percezione di disastri imminenti, genera invece in chi rallenta, ragiona, calcola, evita di presentare in forma immediatamente comprensibile un problema complesso, si affida a statistiche invece di buttare là numeri inventati, etc.
Affezionarsi alle boiate del sistema veloce
Riprendiamo un esempio di Kahneman.
Una mazza da baseball e una palla costano un dollaro e dieci. La mazza costa un dollaro più della palla. Quanto costa la palla?
La risposta intuitiva è: dieci centesimi. Ma questa risposta facile e intuitiva è sbagliata. Non costa molto rallentare il calcolo e risolverlo correttamente. Ma chi è disposto a farlo? E se non si tratta solo di un calcolo fatto (male) al volo, ma di una posizione, un proclama, uno slogan, ancorato a un castello di posizioni di simile caratura?
Entrare nel merito della proposta (per modo di dire) del ministro di turno non è facile: con chi si ragiona? Che accuratezza viene richiesta? C’è disponibilità a seguire un’argomentazione scomoda per chi ha già deciso da che parte stare? Si è pronti a fare il gran salto dal senso comune al buon senso? Mai come in questi casi è appropriata un’osservazione di Alessandro Manzoni: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Secondo come ci si muove, è anche difficile capire di che cosa si sta parlando, a partire dai numeri.
Chi sono i bambini stranieri?
Nel senso comune, per esempio, si sa chi sono i bambini stranieri. Ma se entriamo in una classe di scuola media e chiediamo alle 10 docenti quanti allievi stranieri ci sono in classe, è difficile avere una risposta certa. Dipende dai criteri usati per dire chi è straniero e chi no. Una maestra si sarà informata sulla nazionalità di origine, e dirà x; un’altra sulla cittadinanza attuale, e dirà y; una penserà a quanti bambini stanno seguendo un corso di sostegno per la lingua, e dirà z; un’altra penserà ai tratti somatici, e dirà w; una rimarrà incerta su un bambino nato altrove, scuro di pelle, ma adottato a pochi mesi di vita da due stimati professionisti. Ci sono eccellenti ricerche svolte da una bravissima studiosa, di cui non si fa qui il nome per non esporla, che fanno capire questa pluralità di percezioni sorridendo con letizia e senza spocchia.
Decreti prevedibilmente demenziali
Ma, si dirà, non si tratta di affidarsi a una maestra: piuttosto alla segreteria, impartendo precise disposizioni. E qui si apre davvero una incertezza più alta: perché se si guarderà alla condizione giuridica, la segreteria segnalerà come “extracomunitario” un bambino nato qui che parli bene l’italiano, e come cittadino italiano un bambino figlio di cittadini italiani e quindi italiano magari dalla nascita, ma che forse non è andato alla scuola d’infanzia e ha fatto una primaria meno inclusiva, per cui non padroneggia bene la lingua italiana, anche perché i suoi genitori sono diventati cittadini italiani ma in casa parlano prevalentemente la lingua di provenienza. Si tratta, secondo recenti dati ISTAT, di quasi due milioni di persone: nonostante restrizioni ritardi e ostacoli nella “concessione” della cittadinanza italiana. Per esempio, trent’anni fa ci volevano 5 anni di permanenza, ora 10, la risposta della commissione arriva dopo molto tempo ed è insindacabile, etc.
Chi non sa spiccicare una parola?
Una percentuale via via crescente, e ormai assai alta, di minori di origine non autoctona presenti nelle scuole è nata in Italia, e pochi faranno fatica a “spiccicare una parola”, come scrive un altro campione di pensiero veloce e di salto alle conclusioni, Galli Della Loggia, perché tutti sono dotati di un dispositivo biologico che gli permette di apprendere una lingua in pochissimo tempo, contrariamente a chi ha l’età di chi ci governa e quella di Della Loggia, età in cui quel dispositivo, e quelli cognitivi in generale sono in genere affievoliti rispetto a quando essi erano a loro volta infanti e adolescenti. Stando con gli altri, cosa che il ministro della scuola, seguendo Della Loggia, non vorrebbe, e il ministro alle infrastrutture limiterebbe con un tetto, altra prodezza di pensiero veloce a cui ha aderito il Ministro di cui sopra, impareranno spontaneamente l’italiano del luogo (in Piemonte diversamente che in Toscana, provare per credere: i secondi diranno “sicché” e “interrogato a storia”, mentre i primi si attesteranno su “interrogato di storia”, in attesa che arrivino altri a dire “in storia”: che caos, direbbe Salvini). Se saranno ridotti al 20%, come vorrebbero i ministri-tastieristi di turno, una buona parte dovrebbe fare molti minuti di sonno in meno per raggiungere la nuova scuola: una cattiveria gratuita.
La banalità che stimola
In cambio di che cosa? Ecco il Matteo-Salvini-pensiero: “Altrimenti è un caos di lingue in quella classe, penso anche all’insegnante, invece così può essere stimolante, ma quando gli italiani sono il 20% dei bambini in classe, come fa una maestra a spiegare?”. Proviamo a rallentare. Intanto, che c’entra il 20% di “italiani” quando si parla del 20% di “stranieri”? Che vuol dire “caos di lingue in quella classe?”. Da un trentennio, nelle classi italiane gli allievi parlano nella lingua che stanno acquisendo soprattutto fuori dalla scuola, ma anche un po’ a scuola: ed è l’italiano standard. In quale film di fantascienza si rappresenta il ministro esternatore di turno (e chi lo ascolta e lo ripete, o ci si mette in gara) invece che entrare in una classe? Perché dovrebbe essere più stimolante per una maestra avere 20 bambini su 25 (l’80% che Valditara vorrebbe decretare) tutti nati qua e cresciuti qua? Lo stimolante non è il banale, il prevedibile, il consueto, ma, al contrario, ciò che mette in questione la piattezza. Il più bel libro di pedagogia degli ultimi decenni che io conosca si chiama Attesi imprevisti, e non parla di bambini stranieri, ma di pluralità di intelligenze, di comportamenti, di caratteri. Come fa una maestra a spiegare? Ma la maggior parte del lavoro di una maestra è ascoltare, costruire un ambiente, elicitare, cioè far venir fuori; e divertirsi con i bambini e i ragazzi. Che idea della scuola ha chi ci governa?
Evitare conclusioni intuitive e veloci
Il problema, non è: ma come mai a queste persone viene in mente di dire queste cose? E neppure: ma come gli viene in mente che qualcuno li ascolti? E invece bisogna capire due cose: 1. gli viene in mente. 2. li ascoltano, li ascoltano: meno di mesi fa, ma li ascoltano. Li ascoltano in tanti perché non ci vuole nessuno sforzo per aderire a quanto dicono, e non per la qualità intellettuale o politica, ma proprio per la non-qualità.Ora, i motivi per accontentarsi del sistema mentale 1 – che rischiano di prevalere con grave danno della vita civile, perché ciò implica pressappochismo, incapacità di comprensione di problematiche nuove e complesse, etc. – non crescono a scuola, non sempre a scuola, non soltanto a scuola. Non esiste la scuola, esiste una pluralità di percorsi educativi, certo sempre più a rischio davanti a una spiccata tendenza verso un crescente autoritarismo e la negazione e l’impedimento dell’autonomia organizzativa e didattica. È ora quindi di smetterla di richiamare a valori, a principi a volte non acquisiti, altre astratti e mitici: tutti riflessi condizionati di chi si trattiene pigramente al di qua del pensiero lento. Con i valori si va alle guerre, non al rafforzamento del tessuto dei rapporti civili. È nella vita civile quotidiana, nei microrapporti, negli incontri molteplici che bisogna sviluppare una richiesta di rallentamento. Rallentare, quando si pensa, vuol dire spesso mettere a fuoco, valutare meglio le problematiche, tener conto di tutte le sfumature della non-astrattezza. Non c’è alternativa né scorciatoia. Ma alta è la gioia in un cervello che pensa davvero.