“Ci sarà un giudice a Berlino”, un’espressione utilizzata per invocare la speranza di una giustizia che sia veramente imparziale. Questa espressione in questi giorni è stata riadattata: “C’è una giudice a Roma”.
Il riferimento è alla sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma che il 18 Ottobre scorso non ha convalidato il trattenimento di dodici migranti presso il centro di detenzione amministrativa di Gjander, una delle strutture di trattenimento sul territorio albanese previste dall’accordo siglato tra il governo italiano e il governo albanese. Se questa vicenda ci mostra tutte le falle dell’accordo in occasione della sua prima applicazione, quanto sta accadendo dopo la sentenza di mancata convalida dei trattenimenti in Albania del Tribunale di Roma desta ancor più preoccupazione.
I fatti
Dopo che il 16 Ottobre quattro dei sedici migranti trasferiti in Albania sono stati identificati presso il centro di Shengjin come due minorenni e due persone vulnerabili e per questo portati in Italia, due giorni dopo a disporre gli altri rientri è il Tribunale di Roma per tutti gli altri dodici migranti rimasti. La sentenza di mancata convalida dei primi dodici trattenimenti effettuati Albania richiama la sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia Europea, che fornisce un’interpretazione vincolante della direttiva 2013/32 che definisce i criteri in base ai quali gli Stati membri possono stilare liste di Paesi di origine sicuri ai fini della richiesta di protezione internazionale. In particolare, secondo la Corte di Giustizia Europea “l’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese terzo sia designato come paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione, di cui all’allegato I di tale direttiva.”
Secondo i giudici del Tribunale di Roma non è dunque possibile “designare come sicuro un Paese dove si ricorre alla persecuzione quale definita dall’art. 9 della direttiva 2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti verso categorie di persone o vi siano minacce dovute alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno in parti del suo territorio.”
Egitto e Bangladesh, paesi di provenienza dei dodici migranti trasportati in Albania, secondo i giudici di Roma non possono essere considerati sicuri e dunque non può essere loro applicata la procedura accelerata di frontiera di esame della domanda di protezione internazionale. Il Tribunale ha dunque disposto il diritto dei dodici migranti ad essere condotti in Italia.
La propaganda del governo contro la magistratura
La sentenza non è passata inosservata giacché ha messo in discussione l’efficacia dell’accordo stipulato con l’Albania e di quello che a conti fatti è un tentativo di restringere ulteriormente la garanzia del diritto di asilo anche grazie al potenziamento del sistema dei rimpatri, punto forte nella propaganda del governo sulle politiche migratorie. Il primo elemento al centro di quello che ancora una volta si profila come un conflitto aspro tra Governo e magistratura è la nozione di paese di origine sicuro. La lista dei Paesi di origine sicuri ampliata dal Governo italiano con decreto ministeriale il 7 maggio 2024 comprende infatti anche il Bangladesh e l’Egitto, situazione che resta immutata anche dopo l’approvazione del nuovo decreto-legge approvato ieri in fretta e furia dal Consiglio dei Ministri, che pure ha ridotto da 24 a 19 il numero dei paesi considerati sicuri.
Il primo trasferimento di migranti in Albania ha destato intense polemiche anche rispetto ai costi che questa operazione ha comportato – e su cui alcuni esponenti dell’opposizione hanno anche presentato un esposto alla Corte dei conti.
Tuttavia, al di sopra di questo dibattito vi è un altro frastuono: quello che evoca una presunta interferenza della magistratura rispetto alle politiche di governo. Il Ministro della Giustizia ha definito la sentenza del Tribunale di Roma una “sentenza abnorme”. Alcuni membri della maggioranza hanno utilizzato appellativi svilenti nei confronti dei giudici: «Toghe rosse», «sinistra giudiziaria», come era già avvenuto un anno fa, quando la giudice del Tribunale di Catania non approvò la convalida del trattenimento presso il Centro di Pozzallo per norme in contrasto con le direttive UE.
Un copione, dunque, già visto: quando la propaganda politica si scontra con il diritto, l’attacco si rivolge presso chi ha il ruolo di applicarlo. Quasi sempre viene agitato il tema dell’orientamento politico dei giudici con l’effetto di personalizzare quello che è l’esercizio – legittimo – di una funzione pubblica. Questo è l’ennesimo tentativo del governo di strumentalizzare determinati fatti, deresponsabilizzandosi rispetto a politiche migratorie che non tengono conto delle direttive in vigore nell’Unione Europea – per non parlare dell’ormai strutturata erosione dei diritti umani e del diritto al movimento -; il Ministro dell’Interno paventa un ricorso alla Cassazione, come accadde per il caso Apostolico, che tuttavia si risolse in un nulla di fatto.
Quali interferenze?
Nulla di nuovo, ciononostante non si può sottovalutare una retorica di questo tipo. Se per portare avanti la propaganda anti-immigrazione si mette in discussione il principio dell’indipendenza del potere giudiziario dal potere esecutivo, allora è necessario riflettere sullo spirito antidemocratico che ispira scelte politiche – dal Dl n.20/23 al Protocollo Italia – Albania – che ledono i diritti delle persone migranti. Forse, allora, bisognerebbe parlare di interferenze illegittime e pericolose da parte del governo nei confronti di una magistratura che tenta di applicare le leggi in vigore, tenendo in considerazione quanto stabilito dal diritto internazionale e comunitario.