In vista dell’imminente appuntamento elettorale, Sbilanciamoci! affronta il tema delle città e del governo urbano grazie alla pubblicazione dell’e-book Sbilanciamo le città. Come cambiare le politiche locali. Esso nasce con l’intento di produrre delle analisi quanto più possibile rigorose e idee quanto più possibile praticabili, senza rinunciare alla prospettiva del cambiamento e senza temere di sostenere scelte radicali, rispetto tanti temi e problemi delle città e del governo locale. Il dossier, elaborato sempre nello spirito di Sbilanciamoci! e improntato alla declinazione di parole chiave quali sostenibilità, uguaglianza, inclusione, partecipazione, solidarietà, diritti, ospita sedici voci che toccano i principali temi delle politiche urbane, dalla casa (“Abitare”) alla corruzione (“Vigilare”). Tutti i singoli contributi sono suddivisi e organizzati in tre sezioni (“Il contesto”, “ Le sfide”, “Le proposte”). Nel capitolo 3, curato da Grazia Naletto, viene affrontato il delicato e complesso tema dell'”accoglienza“. Nonostante alcuni segnali positiva, tuttavia si lamenta la mancanza di un “nuovo modello delle politiche locali chiamate a governare l’accoglienza dei nuovi arrivati, ma anche i percorsi di partecipazione e di cittadinanza dei residenti di origine straniera”. Invece, una riallocazione oculata delle risorse economiche esistenti potrebbe produrre risultati apprezzabili e capaci di migliorare l’accoglienza e l’inclusione sociale dei cittadini stranieri. E, al tempo stesso, la qualità della vita delle nostre città. Clicca qui per scaricare l’e-book.
ACCOGLIERE. Come realizzare politiche di inclusione sociale dei migranti
Grazia Naletto • Sbilanciamoci!
Il contesto
Partiamo da qui. La cultura e le pratiche di esclusione, stigmatizzazione, discriminazione dei migranti e delle minoranze rom interessano trasversalmente tutte le culture politiche e l’operato di molte Amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore. Il razzismo attecchisce del resto facilmente in una parte crescente dell’opinione pubblica, sempre più disorientata di fronte agli effetti delle molteplici crisi in corso: quella economico-sociale (i cui effetti stentano a dissolversi), quella politica e quella internazionale. La tentazione di cercare un rifugio nell’egoismo, nella difesa del proprio particolare o, al più, di quello di una comunità locale o nazionale scelta per definire artificiosamente un’identità sociale di cui, evidentemente, si sente la mancanza, sta riemergendo in modo diffuso. Tanto che non solo un europarlamentare può permettersi di definire i rom come “la feccia della società” nel corso di una trasmissione televisiva popolare, ma viene sommerso dagli applausi di buona parte del pubblico presente in studio. Gli attentati di Parigi e Bruxelles hanno gettato dunque legna su un fuoco d’intolleranza, di ostilità e di razzismo che non aveva alcun bisogno di essere alimentato. In questo clima si colloca la crisi umanitaria che dai lontani conflitti in Siria, Iraq, Somalia, Eritrea, Afghanistan, Nigeria e Sudan (solo per citarne alcuni) conduce nelle città europee migliaia di uomini, donne e bambini, ammesso che riescano a evitare le navi militari e a superare i muri e i recinti di filo spinato che intenderebbero respingerli dalla Fortezza Europa. Oggi l’attenzione è tutta rivolta alla Grecia (875mila persone accolte nel solo 2015), ma 153mila persone sono giunte nello stesso anno via mare in Italia (erano state più di 170mila nel 2014): più del doppio di quelle 62.692 persone che nel 2011 indussero il Governo Berlusconi a proclamare la cosiddetta “emergenza Nord-Africa”. Tra queste, 16.478 sono i minori e 12.360 i minori non accompagnati. Al 30 gennaio 2016 il sistema polimorfo di accoglienza pubblico aveva in carico 104.750 persone, in maggioranza ospitate nei Centri di Accoglienza Straordinari (che il Ministero dell’Interno definisce “strutture temporanee”, ma che tali non sono).
Il varo di un Piano Nazionale per la gestione dell’impatto migratorio, sancito in sede di Conferenza Unificata tra Stato-Regioni ed Enti locali nel 2014, il dibattito sviluppato in Parlamento e nel Consiglio Europeo sull’Agenda europea sulla migrazione e quello, molto spesso fazioso, dei media sui “costi dell’accoglienza” esacerbato dall’avvio dell’indagine “Mafia Capitale”, hanno ancora una volta sbilanciato l’attenzione, l’operato e le risorse pubbliche nazionali e comunitarie sul versante delle attività di gestione e controllo dei flussi migratori, di soccorso in mare e della prima accoglienza, continuando a lasciare in secondo piano gli interventi di inclusione sociale, scolastica e lavorativa di quei 5 milioni di persone straniere (un milione di minori) che vivono ormai stabilmente nel nostro Paese. Gli sforzi indubbiamente compiuti per rafforzare il sistema di accoglienza (da una capienza di circa 22mila posti nel 2013 si è passati ai più di 100mila attuali) hanno replicato alcune delle storture già presenti negli anni precedenti. Ad oggi la risposta istituzionale sembra priva di quella lungimiranza che sarebbe necessaria per gestire un fenomeno sociale, storico e strutturale che l’attuale crisi umanitaria ha reso più complesso da gestire.
Le sfide
Alcuni segnali incoraggianti ci sono. Provengono dalla società che interviene spesso silenziosamente, laddove lo Stato e gli Enti locali sono assenti. È successo l’estate scorsa al centro Baobab di Roma, rifugio temporaneo per diverse migliaia di migranti in transito verso il Nord Italia, sostenuto dalla solidarietà concreta di centinaia di cittadini che hanno fornito beni alimentari e vestiario e una presenza costante nel centro. Ed è successo a Udine, dove associazioni e volontari sono stati l’unico punto di riferimento per centinaia di richiedenti asilo non inseriti nel sistema pubblico di accoglienza. Il secondo segnale incoraggiante proviene dall’ormai consolidata attività di tutela legale contro le discriminazioni e il razzismo promossa negli ultimi anni in primo luogo dall’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione). Le sentenze che hanno annullato le ordinanze discriminatorie emesse dai Sindaci in materia di welfare soprattutto in tre ambiti di intervento (le politiche di supporto alla famiglia, il diritto allo studio e le politiche abitative) a seguito delle azioni civili contro le discriminazioni, sono ormai molte e costituiscono, almeno ad oggi, lo strumento più efficace di lotta contro il razzismo istituzionale declinato a livello locale. Queste esperienze dovrebbero essere sostenute anche dagli Enti locali e andrebbero moltiplicate. Quello che invece ancora manca è un nuovo modello delle politiche locali chiamate a governare l’accoglienza dei nuovi arrivati, ma anche i percorsi di partecipazione e di cittadinanza dei residenti di origine straniera. Questi 5 milioni di persone, di cui il dibattito pubblico e la politica si occupano troppo poco, imporrebbero di ripensare le politiche pubbliche locali insieme alle donne, agli uomini e ai bambini che giungono in Italia sfuggendo legittimamente alle bombe, ai conflitti civili, alle dittature e, sempre più spesso, ai disastri ambientali e climatici che dilaniano i loro Paesi. La realizzazione di tali interventi richiederebbe investimenti pubblici adeguati, resi invece sempre più scarsi dalle politiche di austerità adottate a livello nazionale e comunitario; ma anche in mancanza di risorse economiche aggiuntive, una riallocazione oculata di quelle esistenti potrebbe produrre risultati apprezzabili e capaci di migliorare l’accoglienza e l’inclusione sociale dei cittadini stranieri. E, al tempo stesso, la qualità della vita delle nostre città.
1. La messa in discussione della concentrazione crescente delle competenze in materia di accoglienza presso il Ministero dell’Interno e le Prefetture dovrebbe essere la prima battaglia da condurre per Anci e singoli Sindaci. Ciò insieme alla riforma di un modello che, in virtù della dichiarazione di un’emergenza permanente, ha lasciato sin troppo spazio a interessi economici, quando non illegali, che certo non assumono come priorità la garanzia dei diritti delle persone accolte e il corretto utilizzo delle risorse pubbliche investite. Se queste sono divenute oggetto di un giro di affari ignobile non è certo responsabilità dei migranti. L’approntamento repentino di sistemi di accoglienza straordinari, l’elusione delle regole che disciplinano l’affidamento dei servizi pubblici, la totale mancanza di trasparenza dell’operato delle Amministrazioni e degli Enti gestori, l’improvvisazione di strutture affidate a soggetti che non ne hanno titolo: queste sono le vere cause del malaffare, purtroppo in alcuni casi degenerato in un vero e proprio circuito mafioso. Queste cause possono essere eliminate.
• L’accoglienza è “straordinaria”
Il sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia è caratterizzato, ormai da 5 anni (dalla cosiddetta Emergenza Nord Africa) da un modello stabilmente emergenziale che produce molti effetti negativi e soprattutto non garantisce risposte che rispettino la dignità delle persone, lasciando al caso la possibilità di incrociare nel proprio percorso strutture adeguate e operatori competenti. A metà ottobre 2015 erano circa 99mila le persone ospitate in strutture d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati finanziate dallo Stato. Di queste, 71mila circa (il 72% del totale) erano ospitate nei Cas (Centri d’Accoglienza Straordinari), gestiti dalle Prefetture attraverso convenzioni con organizzazioni private (non profit, ma molte for profit) che spesso sono operatori turistici o organizzazioni prive dell’esperienza necessaria. Questi 71mila posti letto si trovavano in 3.090 strutture di accoglienza, molto diverse tra loro (piccole, grandi e i cosiddetti Hub), i cui gestori devono rispettare quanto prescritto dalle convenzioni, ma restituiscono alle Prefetture solo una fattura e delle relazioni periodiche, senza nessun altro controllo definito. Ventiduemila persone circa erano invece ospitate in 430 progetti Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), gestito dai Comuni in convenzione con organizzazioni sociali di comprovata esperienza. La rete Sprar è coordinata dal Servizio Centrale, che risponde all’Anci. Questa rete garantisce standard uguali in tutta Italia, vi si accede attraverso un bando nazionale (rivolto ai Comuni) e prevede controlli periodici e una rendicontazione dettagliata delle spese. Due modelli dunque molto diversi. C’erano poi 13 grandi centri governativi (Cara) per circa 7.200 posti, anche questi gestiti da organizzazioni private, generalmente non profit, con esperienza, che forniscono i servizi previsti dalla convenzione, con obbligo solo di fattura e relazioni periodiche, senza rendiconti dettagliati sulle spese. L’approccio emergenziale ha determinato la prevalenza di strutture d’accoglienza reperite e gestite in regime straordinario. Le principali conseguenze negative della mancanza di programmazione e del ricorso a procedure e strutture straordinarie sono le seguenti. Innanzitutto affidare l’accoglienza a società e organizzazioni non competenti comporta che nel periodo di ospitalità il percorso di inserimento sociale non sia avviato o sia avviato male. Non è curata la relazione tra gli ospiti e il territorio, con conseguenti conflitti ed episodi di razzismo. Il richiedente asilo non viene preparato per il colloquio con la Commissione esaminatrice. La formazione linguistica è per lo più inadeguata. A ciò va aggiunto che il tempo passato in queste strutture (in media un anno) per la lentezza degli uffici coinvolti, impedisce una rotazione e quindi aumenta la necessità di trovare posti, allargando la rete dentro l’area della straordinarietà (Cas). Inoltre, le persone e le famiglie coinvolte hanno diritto al welfare pubblico, al quale provvedono gli Enti locali che, nella maggior parte dei casi, devono fornire servizi senza ricevere risorse aggiuntive e senza poter programmare gli interventi. Infine va detto che i tempi per la formalizzazione della domanda d’asilo e per l’accesso al colloquio con la Commissione sono troppo lunghi (6 mesi per presentare la domanda e oltre un anno per il colloquio). Il Ministero dell’Interno ha stimato la spesa sostenuta per l’accoglienza nel 2015 a circa 1,162 miliardi di euro. Se i tempi d’attesa diminuissero, ad esempio raddoppiando il personale delle Commissioni di Asilo, lo stato spenderebbe circa 9 milioni di euro per le Commissioni e risparmierebbe diverse centinaia di milioni per l’accoglienza. Più strutture e più personale qualificato per le Commissioni Territoriali, potrebbero far risparmiare allo Stato e ai Comuni centinaia di milioni e generare percorsi virtuosi di inserimento sociale. Per ora si è scelta la strada opposta.
(Testo a cura di Filippo Miraglia, Arci)
2. Un secondo ambito è quello della costruzione di interventi coordinati di inclusione sociale: l’inserimento non subalterno nel mercato del lavoro (magari facilitando l’accesso all’orientamento, alla formazione e alla qualificazione professionale), ma anche l’inserimento sociale (diritto all’istruzione, alla salute, all’abitazione, all’assistenza sociale), la partecipazione civile e la libera espressione religiosa e culturale (diritto di associazione e di partecipazione), la partecipazione politica (diritto di voto attivo e passivo amministrativo) e, infine, la semplificazione dell’accesso alla cittadinanza formale. In sintesi gli Enti locali dovrebbero assumere come priorità l’obiettivo di facilitare l’inserimento non subalterno né passivo del cittadino straniero nel tessuto sociale, cessando di identificarlo solo come un lavoratore da accogliere o da respingere a seconda dei mutamenti del contesto internazionale e delle fluttuazioni del mercato del lavoro e riconoscendolo come persona che ha diritto, al pari dei cittadini italiani, a vivere bene.
3. Segregare costa. L’Italia è l’unico Stato europeo ad aver istituzionalizzato il sistema dei “campi nomadi”, scegliendolo come forma ordinaria di intervento per gestire la presenza dei rom e dei sinti e coinvolgendo nel sistema economico che si è sviluppato attorno ai campi molte organizzazioni della società civile. Le risorse pubbliche destinate a “favorire l’inclusione abitativa e sociale” dei rom sono infatti per lo più investite nell’allestimento e nella gestione dei “campi” e nel finanziamento di interventi sociali che hanno questi come baricentro. Il modello del “campo” richiama al tempo stesso due ordini di significati. Da un lato, essendo proposto sempre come una soluzione temporanea, il “campo” richiama (e sottintende) l’idea di una accoglienza tollerata e provvisoria dei rom che vi vengono “ospitati”. Dall’altro, la concezione del “campo” come area dedicata ad accogliere solo ed esclusivamente i rom e i sinti in uno spazio periferico, recintato e sorvegliato, rinvia a pratiche di controllo e di segregazione “etnica” che contribuiscono a sancire e legittimare l’esclusione e il rifiuto delle popolazioni rom e sinte da parte della società maggioritaria. Ciò vale anche per i “campi attrezzati” o “villaggi della solidarietà” costruiti negli ultimi anni. Anzi, i “villaggi della solidarietà”, come quello di Castel Romano a Roma, hanno se possibile accentuato le caratteristiche di segregazione insite in questo modello, concentrando centinaia di persone (1.300 circa quelle che vivono a Castel Romano) in un’area isolata, lontana dal centro urbano e difficilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. Il sistema dei campi comporta inoltre un enorme dispendio di risorse pubbliche: costa molto – dopo “Mafia Capitale” ormai non sono più solo le associazioni a denunciarlo – e i milioni di euro spesi per mantenerlo potrebbero essere utilizzati meglio.
4. Dalla negazione del rilascio della tessera sanitaria per Stranieri Temporaneamente Presenti (Stp), al rifiuto dell’iscrizione anagrafica, alla previsione di requisiti “oculatamente” restrittivi per accedere ai servizi per l’infanzia o per beneficiare del contributo per i nuovi nati, per non parlare dei controlli quotidiani dei documenti effettuati dalle polizie municipali in forme e con pratiche non esattamente nonviolente: sono solo alcuni esempi di discriminazione istituzionale operati da parte di dipendenti pubblici e subite quotidianamente dalle persone straniere che abitano nelle nostre città. I Comuni ne condividono le responsabilità e possono fare molto per prevenirli.
Le proposte
La buona accoglienza si fa nelle città
Il Comune può svolgere un ruolo centrale nella ridefinizione del modello di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, stimolando il Governo a uscire dall’approccio emergenziale e a optare per un modello di accoglienza ordinario, coordinato a livello nazionale, ma disegnato sulla base di una stretta collaborazione tra Enti locali, organizzazioni sociali di tutela, migranti e rifugiati. Un confronto promosso dalla Cgil Lazio insieme ad alcune realtà associative romane, sintetizzato recentemente nel documento Roma accoglie, ha individuato alcune direttrici di riferimento. Il modello dovrebbe privilegiare l’accoglienza in piccole strutture diffuse sul territorio in modo da evitare, come avviene oggi, la ghettizzazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Le piccole strutture e l’accoglienza in famiglia potrebbero ad esempio ricevere una premialità nei bandi pubblicati per l’affidamento dei servizi. Tra le opzioni a disposizione dell’Ente locale per ottimizzare le risorse disponibili vi è quella di rinunciare alla dismissione degli immobili pubblici e valorizzarli per offrire accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati o, meglio, ampliare l’offerta di abitazioni a uso sociale accessibili a tutte le fasce di popolazione, autoctona e non, che ne hanno diritto, affiancandola con centri polifunzionali di orientamento e accompagnamento legale, sociale, scolastico e lavorativo. Ciò consentirebbe di scorporare dai bandi di appalto l’individuazione e la messa in opera delle strutture di accoglienza e di rimuovere almeno uno dei fattori che favoriscono fenomeni di corruzione e l’utilizzo improprio delle risorse pubbliche. Il Comune dovrebbe essere titolare del ruolo d’indirizzo e di coordinamento dei servizi, ma la collaborazione con le associazioni di tutela e con i migranti presenti sul territorio dovrebbe avviarsi sin dalla fase di progettazione degli interventi. Proprio la qualità sociale e la sostenibilità dei servizi di accoglienza dovrebbero sostituire i criteri (gare di appalto che premiano le offerte al massimo ribasso e quelle economicamente più vantaggiose) sui quali si fonda l’attuale sistema di affidamento delle strutture di accoglienza. Il sistema dei bandi di gara, per qualsiasi tipologia di accoglienza, dovrebbe prevedere la garanzia degli standard minimi di qualità dei servizi erogati e una rendicontazione dettagliata delle attività svolte. Agli enti gestori dovrebbero essere richiesti, già in fase di gara, la pregressa idoneità delle strutture di accoglienza utilizzate, l’applicazione dei contratti nazionali nei rapporti di lavoro con gli operatori, l’impiego di tutte le figure professionali necessarie, la garanzia di un rapporto equilibrato tra numero di operatori impiegati e numero di richiedenti asilo ospitati. Idonee e dettagliate procedure dovrebbero garantire il rispetto degli obblighi di trasparenza e l’effettiva tracciabilità dei flussi finanziari. Proprio la trasparenza dovrebbe essere il principio di riferimento per il Comune, che dovrebbe consentire una sistematica attività di monitoraggio in itinere e di valutazione ex post dei servizi anche grazie alla costituzione di un organismo dedicato composto da rappresentanti dell’Amministrazione comunale, di associazioni di tutela estranee alla gestione dei servizi, di migranti e rifugiati. Promuovere inclusione, diritti di cittadinanza, partecipazione Senza un sistema coordinato di servizi di orientamento sociale, scolastico, formativo e professionale, l’accoglienza nelle città rischia di generare dipendenza e subalternità. Tra i molteplici percorsi possibili ne esemplifichiamo alcuni: la creazione di una rete decentrata di servizi di orientamento sociale coordinati tra loro; l’apertura, soprattutto nelle periferie, di spazi giovanili e di socializzazione poli-culturali che, in collaborazione con gli istituti scolastici, attivino iniziative di lotta alla dispersione scolastica; l’utilizzo dei fondi a disposizione per orientare e qualificare la formazione professionale, arginando l’etnicizzazione che caratterizza il nostro mercato del lavoro. Implementare Piani locali per smantellare i “campi nomadi” È necessario che le istituzioni locali cambino del tutto l’approccio culturale, politico e amministrativo con il quale sino a oggi hanno gestito la presenza dei rom e dei sinti, investendo in progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati all’autonomizzazione dei rom. Naturalmente lo smantellamento di un sistema così radicato nel tempo richiede una pianificazione, una precisa strategia di intervento, il coinvolgimento diretto delle popolazioni rom e sinte nella sua progettazione, risorse dedicate, tempi certi e l’adozione di percorsi differenziati che tengano conto della diversità delle situazioni familiari dal punto di vista giuridico, economico e sociale. A scanso di equivoci, i Piani di chiusura di cui parliamo non hanno naturalmente niente a che vedere con le vergognose politiche degli “sgomberi” che nel corso degli anni hanno accompagnato le “politiche dei campi”. Pianificare la chiusura dei campi rom significa sostituire al modello del campo quello dell’abitazione non ghettizzante prima di chiudere i “campi”. Le alternative possibili sono molte: dal sostegno all’inserimento abitativo autonomo in abitazioni ordinarie, all’inserimento in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate. Ciò che è certo è che senza il diretto coinvolgimento degli interessati nessuno dei percorsi scelti può avere successo. E il “successo” significa creare le condizioni affinché i rom e sinti che oggi vivono nei campi possano definitivamente fare a meno dell’assistenza (pubblica o privata che sia). Il che è possibile, come dimostrano le migliaia di rom e sinti che vivono nelle abitazioni da decenni e di cui, naturalmente, non parla nessuno.
Contrastare le discriminazioni e il razzismo
Benché l’Ufficio Nazionale contro le Discriminazioni (Unar) si sia fatto promotore della costituzione di reti territoriali di contrasto alle discriminazioni e il razzismo, queste faticano a essere operative anche laddove previste da specifici protocolli di intesa stretti con le Regioni e con i Comuni. Attività di informazione e di formazione promosse dall’Ente locale, in collaborazione con le diverse associazioni di migranti e antirazziste, i sindacati e i giuristi democratici, sono invece auspicabili e potrebbero offrire un contributo utile in tale direzione. In particolare, il Comune potrebbe farsi promotore della formazione contro le discriminazioni istituzionali che troppo spesso vengono compiute, anche indirettamente, dal personale che opera nelle Amministrazioni pubbliche locali, in particolare nei servizi amministrativi, di relazione con il pubblico, alla persona e socio-educativi, e nella polizia municipale.