
“Come può un’italo-africana rappresentare l’Italia?”, “Canoni di bellezza non rispettati”, “A questi concorsi dovrebbero essere ammesse solo ragazze bianche”. Sono solo alcuni dei commenti circolati sui social a settembre, in seguito alla vincita di due concorsi di bellezza locali da parte di due ragazze italiane afrodiscendenti rispettivamente elette “Miss Trieste” e “Miss Umbria”.
La prima è Fanny Tardioli, cittadina italiana con madre nigeriana, che in risposta a questi commenti razzisti, ha pubblicato un lungo post su Facebook in cui si dice “non offesa, ma delusa” e che “Si tratta di gente ignorante, persone adulte che trascorrono il loro tempo a diffondere odio, quando invece dovrebbero dare il buon esempio.”
In un commento simile la madre dell’altra vincitrice, V. M., la quale tra l’altro ha quindici anni, sottolinea come la maggior parte dei commenti venissero da utenti adulti.
Adulti che, probabilmente, non riescono ad uscire dai canoni estetici strettamente occidentali, visto che la maggior parte delle frasi discriminatorie facevano riferimento al colore della pelle e al background migratorio (il sempreverde “tornatene al tuo Paese”) che nessuna delle due in realtà possiede, essendo una nata a Campello sul Clitunno e l’altra a Spoleto.
Si nota, quindi, come al loro aspetto fisico siano legati tutta una serie di pregiudizi circa il loro vissuto e la storia della loro famiglia. Pregiudizi che non riguardano strettamente solo le donne afrodiscendenti, ma tutte le donne razzializzate.
Aldilà del fatto che si possano ritenere i concorsi di bellezza come una pratica anti-femminista, che va a rafforzare la costruzione sociale della donna-oggetto, quello che questi commenti evidenziano è come razzismo e sessismo si intreccino facilmente.
La discriminazione, infatti, si attua su due livelli, intersecati tra loro: il razzismo scaturisce da una presupposta coerenza estetica tra la cittadinanza italiana e una idea di bellezza che segue canoni eurocentrici, alla cui base c’è una volontà di controllo del corpo femminile, che deve per forza aderire ad un certo ideale per essere riconosciuto come bello e apprezzabile da uno sguardo maschile.
Gli insulti razzisti, dunque, diventano un mezzo per attaccare il corpo della donna e propagandare forme di sessismo.
Sono diversi gli studi che evidenziano come tra i soggetti più colpiti dall’hate speech online ci siano proprio le donne: nel 2020, il “Barometro dell’odio” di Amnesty International ha segnalato che le donne “in media registrano più commenti offensivi, discriminatori o hate speech” e subiscono “più attacchi personali rispetto agli uomini”.
Il report di Pangea Le donne al centro del bersaglio tra razzismo e sessismo analizza in maniera più approfondita l’hate speech sessista e i modi in cui si lega al razzismo: a livello statistico, viene spiegato che “i contenuti che originano più commenti sessisti hanno per argomenti principali l’immigrazione (19%) e le minoranze religiose (15%)”. C’è, quindi, una chiara correlazione tra razzismo e sessismo, che emerge anche considerando i soggetti femminili più colpiti dall’hate speech online: si tratta di politiche, figure dello spettacolo e attiviste, soprattutto se lavorano per una Ong o si occupano di soccorso delle persone con background migratorio, quindi, in genere, di donne che non rientrano perfettamente negli stereotipi di genere.
I commenti più feroci e violenti sono utilizzati contro le cittadine italiane afrodiscendenti o con genitori stranieri, che spiccano nel proprio ambito di competenze (come lo sport), e contro le donne di potere, che esprimono opinioni contrarie a quelle degli odiatori online.
È evidente in questi casi come razzismo e sessismo promuovano la stessa visione dei rapporti di potere, che si rifà in maniera più ampia a un sistema socioculturale di tipo patriarcale. Sistema in cui permane una determinata visione delle relazioni interpersonali e sociali, basate non sulla reciprocità e il rispetto dell’altro, ma su logiche di subalternità e possesso: l’altra persona non è mai una pari, ma un oggetto da sottomettere e su cui esercitare forme di controllo.
Si tratta di una visione del mondo che, nella storia italiana e occidentale, affonda le sue radici anche nel colonialismo. Ma quando si parla della visione che si ha della donna razzializzata, l’ottica coloniale s’intreccia ad una visione patriarcale, in cui viene tracciata una linea gerarchica che non si basa solo sul colore, ma anche sul genere. Se il ruolo della donna caucasica è stato funzionale in passato all’incarnazione del concetto di Stato Nazione, attraverso la figura de “La Madre Patria” (George L. Mosse, 1984), la donna razzializzata spesso ne rappresenta l’antitesi, financo la sua stessa corruzione.
Il corpo della donna nera afrodiscendente, in particolare, è stato usato molto nella propaganda coloniale-imperialista, come simbolo di un mondo “africano” primitivo e animalesco, messo in contrapposizione con quello europeo, considerato civilizzato e razionale. Un confronto che si basava, tra gli altri elementi, anche sulla contrapposizione dei canoni estetici tra le donne nere africane e le donne bianche europee: delle prime, anche a livello grafico, spesso con disegni grotteschi e apertamente razzisti, venivano evidenziate le forme (seno, fianchi, organi genitali) per rappresentare una presunta lascivia sessuale, mentre delle seconde si evidenziava la modestia e la “purezza”.
E, come abbiamo spiegato anche in altri articoli, in Italia in particolar modo, si fa ancora molta fatica a venire a patti con l’eredità di questo tipo di immagini sulle donne.
Come abbiamo evidenziato nel dossier e nel VI Libro Bianco sul Razzismo, le donne razzializzate sono, molto spesso, soggetti invisibili, mal raccontati dai media e stereotipate nel nostro immaginario.
Una giovane donna senegalese che aspetta l’autobus sotto la pensilina della fermata viene ancora scambiata automaticamente per una sex worker da un uomo che, senza filtri, le si approccia chiedendole il prezzo della prestazione. Le rifugiate ucraine che sarebbero state accolte nei vari paesi europei, all’inizio dell’invasione in Ucraina da parte della Russia, sono state definite come centinaia di cameriere, badanti e amanti in arrivo in Italia.
Sono solo due esempi della complessità dell’esperienza di molte donne con background migratorio. Spesso sono relegate nell’ampia e semplicistica categoria “migrante”, senza che emerga la complessità dei loro percorsi, in quanto soggetti con rischi ed esigenze ben specifiche e diverse rispetto agli uomini con background migratorio.
Le specificità emergono troppo spesso solo per fini propagandistici, in narrazioni pseudo-nazionaliste e islamofobe, come nel caso della ciclica polemica attorno al velo islamico e dei vari tentativi legislativi di impedirne l’utilizzo in luoghi pubblici, con ordinanze comunali o disegni di legge ad hoc, in nome di una presupposta incompatibilità culturale tra il popolo italiano e “gli immigrati”, descritti spesso come una categoria sociale unica, senza tenere conto dell’enorme eterogeneità delle persone con background migratorio.
Il corpo femminile viene, quindi, utilizzato per promuovere idee discriminatorie, secondo un’ideologia che è razzista e sessista, nel suo intendere l’altro come oggetto passivo e subalterno. Un’ideologia che può essere superata solo con lo smantellamento sistemico e culturale dell’ideologia patriarcale, tramite politiche di sensibilizzazione, che agiscano sul lungo periodo e su più livelli (educativo, affettivo, sociale e culturale).










