La morte di Mahmoud Abdalla, diciannovenne di origine egiziana, arrivato nel 2021 come minore non accompagnato, arriva come un fulmine a ciel sereno non solo per la comunità di Genova che ha conosciuto il ragazzo, ma a chiunque abbia letto la notizia. Un omicidio la cui crudeltà è indicibile, sia per le modalità con cui è avvenuto, riportate in tutte le testate con dovizie di particolari, sia per il movente: il ragazzo voleva interrompere il rapporto di lavoro in quanto sfruttato dai titolari.
In questa storia ci sono tante cose ancora da chiarire, ma è importante porre l’accento sulle modalità con cui questa sta venendo raccontata. Nelle espressioni, nel modo di costruire i titoli, nello scendere in particolari macabri e raccapriccianti, è presente un meccanismo narrativo che strizza l’occhio ad un animo facilmente incline alle generalizzazioni o al razzismo, riproponendo alcuni stereotipi.
La pista dello spaccio e della baby gang
Quando è stato ritrovato e identificato il corpo acefalo di Mahmoud Sayed Mohamed Abdalla i giornali hanno proposto una narrazione molto simile sia nei titoli che nei contenuti. Insistenza sullo stato del corpo trovato – mutilato – e l’età del giovane, la nazionalità non era molto presente nei titoli, ma espressa in tutti gli articoli. Tutto sembra ascriversi al dovere di cronaca, ciò che tuttavia balza all’attenzione è come nel momento in cui si fanno luce alcune ipotesi di movente dell’omicidio, nonostante siano presenti due piste (quella della malavita e quella del litigio con i titolari), la prima viene narrata come certa. Il 28 Luglio si legge su Il Secolo XIX «È ormai indubbio che una delle piste seguite dagli investigatori porti al mondo della droga. Nelle urine di Abdalla il medico legale ha riscontrato tracce di anfetamine, ma ulteriori informazioni su questo aspetto potrebbero emergere dagli esami tossicologici. Secondo alcune delle persone già sentite dai militari, il giovane faceva uso di hashish.» Il giorno dopo sullo stesso quotidiano si alimenta la stessa ipotesi con il seguente titolo «Giallo del ragazzo ucciso e mutilato: spunta la pista della baby gang» e il sottotitolo a seguire «Mahmoud probabilmente assassinato da più persone. Gli amici svelano: “Era entrato in un brutto giro a Genova”», rinforzando la teoria del legame fra il giovane e il mondo della criminalità, nonostante nello stesso articolo sia menzionata anche l’altra pista aperta dal litigio con i titolari del Barber Shop in cui lavorava.
Si parla incessantemente di baby-gang, di spaccio, di malavita, regolamento di conti, tutto un immaginario che troppo spesso viene ricondotto facilmente a persone di origine straniera, in particolare nordafricana.
La scoperta dell’identità degli assassini
Le cose mutano appena viene scoperta l’identità degli assassini di Abdalla, Mohamed Ali Abdelghani, detto Tito, e Abdelwahab Ahmed Gamal Kamel, detto Bob, il titolare e il socio di Aly Barber Shop, la barberia a Sestri Ponente, attualmente sotto sequestro, in cui lavorava al nero in condizioni di sfruttamento e viveva il giovane diciannovenne. I due sono stati incastrati attraverso immagini video e intercettazioni telefoniche ed attualmente sono detenuti nel carcere genovese di Marassi.
Nonostante buona parte degli articoli non espliciti la nazionalità dei presunti assassini di Mahmoud, non è difficile trovare commenti stigmatizzanti nei social al di sotto di moltissimi articoli, commenti che aumentano quando invece la provenienza è esplicitata nei titoli. «Cadavere mutilato, in procura due giovani nordafricani» oppure «Cadavere mutilato, due egiziani indagati per omicidio», la titolazione in questi due articoli dell’Ansa, rappresenta un tipo di comunicazione che lungi dal rientrare nel semplice dovere di cronaca, ricalca una precisa linea stigmatizzante e razzista che troppo spesso si è vista, dando spazio a generalizzazioni nei confronti di intere comunità. A confermarlo sono proprio i commenti che si possono trovare ad esempio su Facebook come «Ci mancavano anche gli egiziani. Si stanno tutti integrando…ma con le leggi italiane», «Niente da fare la violenza conoscono e con quella vivono»; un post in cui si ricondivide la notizia presenta un incipit piuttosto esplicativo per il suo razzismo «MAGREBINI …. sempre loro!!».
Fra macabro ed espressionismo: i dettagli di un omicidio raccapricciante
Generalizzazioni indebite, stigmatizzazione e razzismo continuano ad essere alimentati e proposti ai lettori man mano che emergono maggiori dettagli su questo omicidio. Dettagli che non nascondono il macabro, dall’arma del delitto all’utilizzo di un linguaggio espressionistico ogni qual volta si richiama l’atto omicida di “Tito” e “Bob”. Questo incedere nei dettagli così violenti, per quanto sia un espediente giornalistico utilizzato spesso per catturare l’attenzione dei lettori guadagnando qualche click in più, ha degli effetti su chi legge che non possono essere ignorati. Un omicidio così violento è già di per sé una notizia; scegliere di raccontarne i particolari, specificando ove possibile nell’articolo la nazionalità dei presunti assassini, crea una precisa associazione mentale, come se quella violenza fosse tipica solo di una comunità, come se la nazionalità determinasse le modalità con cui vengono commessi i reati. «Non mi risulta che gli imprenditori italiani taglino le teste», commenta un utente su Facebook, dimenticando come anche da parte dei cosiddetti italiani “autoctoni” siano stati compiuti tantissimi reati che purtroppo possono equipararsi al livello di crudeltà presente in questo omicidio.
Ad ogni dettaglio o aggiornamento segue una nuova declinazione dello stigma, come in questo titolo di un articolo su GenovaToday, uscito a seguito delle intercettazioni telefoniche: «Tito e Bob: “Odio l’Italia” e dopo il delitto sono andati a svagarsi». Ma è presente anche un latente rancore nei confronti della comunità egiziana: se all’appello dei genitori di riportare il corpo di Mahmoud Abdalla in Egitto, insieme agli assassini affinché siano processati nel loro Paese, alcuni rispondono a favore di questa richiesta, altri richiamano un’altrettanta tragica vicenda, quella di Giulio Regeni, richiedendo che i suoi assassini siano anch’essi processati in Italia.
Se il giornalismo oggi vive di click, engagement e molto più di prima la comunicazione si piega alla necessità di fare leva sulle emozioni per catturare l’attenzione del lettore, la terribile vicenda di Mahmoud Abdalla mostra come nel mondo dell’informazione spesso manchi la responsabilità rispetto a ciò che viene comunicato. Non stiamo ai livelli di altri casi e altri relativi articoli visti in passato in cui la generalizzazione è esplicita, molto probabilmente perché la vittima è anche questa di origine straniera, ma non manca quel pensiero che vuole racchiudere un certo tipo di violenza alla “barbarie” legata all’altro, allo straniero. Una “guerra di civiltà” tra Occidente e Oriente che si sta combattendo nei commenti degli articoli, anche quando questi apparentemente si mostrano come neutri. Ma l’informazione non può dirsi davvero neutra se è l’omicidio nelle sue modalità o l’omicida stesso, più che la gravità del reato commesso, a stare al centro dell’informazione. L’informazione non è davvero neutra se, come in questo caso, un ragazzo appena maggiorenne, di origine straniera, lavoratore sfruttato, viene totalmente deumanizzato nella sua storia, diventando strumentale al tipo di narrazione che si vuole fare. Storie di questo tipo, così oscure, andrebbero trattate con maggior rispetto e delicatezza, responsabilizzando il mondo dell’informazione affinché l’occhio e l’orecchio dei lettori sia educato alla ricezione della notizia reale e non alla ricerca del particolare scabroso.
Rimaniamo in attesa dei risvolti delle indagini, unendoci al dolore della famiglia, con il pensiero rivolto a Mahmoud Abdalla, il 19enne che sognava di aprire il suo salone Rest In Power.