
C’è una vecchia abitudine tutta occidentale che non muore mai: decidere cosa sia meglio per le donne di origine straniera, soprattutto se di religione musulmana. L’ultima reincarnazione? Una deputata della Lega che, per “difendere la libertà femminile”, ha definito il velo islamico “spazzatura” e ha chiesto di vietare l’hijab e il chador nelle scuole, presentando una proposta di legge ad hoc.
Non è la prima volta che il ruolo della donna nella cultura islamica viene strumentalizzato per portare avanti una retorica razzista e islamofoba, dalla proposta di presunte ordinanze anti-burqa come nel 2004 e nel 2015 fino alla diffusione di alcuni manifesti usati durante la campagna elettorale per le Europee 2024 di cui abbiamo parlato nell’ultimo Libro Bianco (si veda “L’islamofobia non difende le donne” ). Ancora, un deputato di Fratelli d’Italia e un’eurodeputata della Lega hanno criticato la celebrazione del rito dell’Ashura – una festività legata alla religione islamica – in cui mentre davanti vi erano gli uomini intenti in una coreografia, dietro, nascoste da un velo nero vi erano le donne. Anche in questo caso la posizione delle donne in quel contesto è stato un pretesto per ribadire una supposta incompatibilità fra culture.
Che la presunta battaglia tra occidente e oriente si giochi fin troppo spesso sul corpo delle donne è un argomento che abbiamo trattato più volte, ma in questa sede preme riaprire un’altra riflessione e porre l’accento sulla colonialità intrinseca della battaglia contro il velo islamico.
Gia Annamaria Rivera nel 2015 in merito al dibattito sul burkini vietato in Francia definiva il velo come “proiezione feticistica di un passato coloniale che non passa”. Questo passato che non passa, come nel caso concreto del contesto francese, tuttavia si estende al presente italiano.
La colonialità attraverso cui nel contesto occidentale si guardano ancora certi corpi, trascende i confini dei singoli Stati: come ben ha sottolineato Fanon il corpo dell’altro – ovvero le persone di origine straniera, in particolare provenienti da continenti diverso da quello europeo – è ancora visto come territorio di controllo che passa anche attraverso l’imposizione culturale. Questo si fa ancora più vero quando si parla della cosiddetta “donna islamica”, che come l’”Oriente” di cui parlava Edward Said, non è altro che una semplificazione simbolica che da un lato riduce una pluralità di persone- di donne – alla semplice visione di vittima dell’uomo musulmano intrinsecamente violento, dall’altro serve a riconfermare la superiorità “culturale” e morale dell’”Occidente”.
Nel contesto italiano, in cui l’influenza culturale della chiesa cattolica è molto forte, lo spazio di autodeterminazione della cosiddetta “donna islamica” diventa uno spazio conteso da chi vuole difendere i diritti delle donne con una postura femminista e chi vuole difendere i diritti delle donne in chiave principalmente morale e “nazional-identitaria”, difendendo, sostanzialmente solo l’immagine che un certo Stato ha di sé.
Tuttavia in questo contenzioso è proprio l’autodeterminazione a perdersi. Se da un lato c’è la “donna islamica” dotata di un velo parlante, trasformato in un simbolo di come l’Occidente guarda al patriarcato fuori dai suoi confini, dall’altro ci sono le donne reali. Le donne che si definiscono musulmane e che vivono la propria fede come vogliono, organizzandosi, rivendicando i propri diritti, supportandosi. Le donne che scelgono di autodeterminarsi anche migrando, delle volte proprio per sfuggire a dinamiche patriarcali e violente sia nella sfera pubblica che in quella privata, spesso incontrando, una volta giunte in Europa, grandi difficoltà nella legittimazione del proprio percorso migratorio.
La postura coloniale sta tutta qui: nell’incapacità di riuscire a riconoscere le elaborazioni politiche che vengono fatte su determinate questioni, come i diritti delle donne, sostituendosi alle persone direttamente interessate – in questo caso le donne musulmane – che hanno il reale mandato di stabilire il proprio spazio di rivendicazione politica e autodeterminazione.
Chiaramente la colonialità di questo sguardo è funzionale al mantenimento di una propaganda razzista e islamofobica, soprattutto da parte di una certa sponda politica, ma il radicamento della colonialità nella nostra cultura è presente anche in chi si propone di difendere realmente le donne in un’ottica femminista – come sempre Annamaria Rivera ha sottolineato ben prima che i concetti di intersezionalità diventassero una tendenza – dimenticandosi che anche in questo caso, quelle donne non sono soggetti passivi per cui lottare, ma soggetti attivi con cui lottare.
Decolonizzare il proprio sguardo è una necessità, non un semplice slogan. E’ una pratica che spesso parte da cose semplici, come riconoscere con quale voce si rivolge a noi quel velo parlante di quella silenziosa “donna islamica” e ricordarsi di una verità: i veli non parlano, sono solo veli; sono le persone – le tante diverse donne, per storia e background – a parlare. Dovremmo solo iniziare ad ascoltarle.
Stefania N’Kombo José Teresa