
Fino a qui tutto male. Per alcuni la vita è possibile solo se si sceglie di cadere da alte mura, per sfuggire a una infima forma di prigionia, una detenzione senza reato. E’ quanto è successo a inizio gennaio nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Gradisca dove un ragazzo di origine tunisina si è lanciato dal tetto in un tentativo di fuga. Dieci giorni dopo un altro ragazzo anch’egli di origine tunisina ha ripetuto lo stesso gesto. Alal e Aziz – i nomi dei due giovani poco più che maggiorenni che hanno tentato la fuga – sono entrambi ricoverati, fortunatamente senza gravi lesioni, ma il loro non è un caso isolato. Questi gesti che, come sottolineato da Mai più Lager – NO ai CPR, capitano molto più spesso di quanto si riesca a documentarli, devono far riflettere sulle dure condizioni all’interno dei centri di detenzione, come denunciano da anni le associazioni antirazziste e come dimostrano le persone migranti detenute con continue rivolte.
L’ultima protesta è avvenuta proprio lo scorso lunedì 20 gennaio, con scontri ancora più violenti protrattisi fino alla mattina del giorno seguente, come dichiarato dal Tg Trieste in un servizio, con danneggiamento delle strutture e incendi. Sono stati creati dei varchi in sette punti, danneggiati l’impianto idraulico ed elettrico e 30 detenuti sono saliti in forma di protesta sul tetto. La protesta è stata repressa con la forza da parte delle forze dell’ordine e nei giorni immediatamente successivi sono iniziati i primi trasferimenti in altri centri, gli arresti con l’accusa di aver appiccato gli incendi e sembra che ci sia il rischio per chi invece rimarrà a Gradisca di vedersi sequestrato il cellulare. Questi, brevemente, i fatti che sono stati riportati anche da alcuni media, avvenimenti che rappresentano un’ingiusta routine. Singole storie, come quelle di ragazzi come Alal e Aziz che rischiano la vita pur di fuggire da quello che da molti viene definito un lager di Stato sono profondamente intrecciate alle ragioni delle proteste che non solo a Gradisca, ma in molti altri CPR avvengono quasi ogni giorno. Le notizie da Gradisca d’Isonzo sono uno scorcio su un fenomeno sistemico e sistematico che riesce ad avere copertura mediatica o a seguito di proteste o, nel peggiore dei casi, quando un detenuto all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio perde la vita.
Ma c’è qualcosa prima dei lacrimogeni e dei manganelli, prima degli incendi o della caduta di ragazzi che provano a ribellarsi, ci sono delle storie. Il CPR di Gradisca, come quello di via Corelli a Milano, è tra i pochi che permette alle persone detenute di tenere uno smartphone, dispositivo con cui molto spesso vengono condivisi attraverso i social le condizioni degradanti in cui vivono, raccontano le ingiustizie che subiscono, condividono lo smarrimento e lo spavento di non sapere per quali ragioni sono finiti lì non avendo commesso reati. Gli stessi obiettivi che raccontano poi le immagini delle proteste, per dar voce alle proprie istanze e denunciare la violenza che subiscono dalle forze dell’ordine.
Insieme alle ispezioni (sempre più difficili da effettuare) che spesso varie realtà della società civile, giornalisti, giornaliste e esponenti politici compiono, queste narrazioni costituiscono una testimonianza che contestualizza quanto accade all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, facendo da contraltare ad un’altra retorica incentrata sulla sicurezza e sulla necessità di maggiori rimpatri, che asseconda un sistema che continua a voler mettere a tacere le voci di chi protesta nelle strutture di detenzione, come il DDL 1236 ancora in discussione in Parlamento – bisogna ricordarlo – anche senza che la protesta avvenga in maniera violenta.
I fatti di Gradisca, ancora una volta, non ci chiedono di migliorare un sistema fallace di per sé, né di salvaguardare la sicurezza di giovani che tentano di fuggire. Le immagini di Gradisca testimoniano un punto fermo: il problema non è la caduta di Alal e Aziz, ma l’esistenza dei CPR.