
«Sappiamo cosa è giusto per Ousmane e Moussa, ma sappiamo anche cosa è giusto per tutte quelle persone ancora rinchiuse all’interno dei CPR». Parole semplici quelle pronunciate da Mariama Sylla, sorella di Ousmane Sylla, alla conferenza stampa del 4 Febbraio organizzata dalla Rete Stop CPR a Roma. Parole semplici che però parlano di come si possa trasformare il dolore intimo di due famiglie che hanno perso i figli o i fratelli, in un sentimento che anima la voglia di lottare per tutte quelle persone che hanno subito e stanno ancora subendo le angherie che Ousmane Sylla e Moussa Balde hanno sofferto.
La storia dei due ragazzi è estremamente simile tra loro: entrambi poco più che ventenni, provenienti entrambi dalla Guinea e come afferma Mariama, provenienti dallo stesso quartiere. Entrambi con la loro fragilità, come abbiamo ripercorso anche recentemente nel Sesto Libro Bianco, non sono stati tutelati; entrambi si sono tolti la vita una volta entrati nei CPR. Ora, la storia dei due ragazzi si unisce tramite il coraggio – come ha ripetuto più volte Thierno Balde fratello di Moussa Balde – delle famiglie ad essere lì, facendosi storia di resistenza e lotta contro quelli che vengono definiti lager di Stato. Ci vuole coraggio, come dice Thierno, per dare voce a chi non ha voce, ci vuole coraggio per impegnarsi contro un «razzismo di Stato» che apre le porte alla morte o nell’attraversare le frontiere o, come nel caso dei due ragazzi, dentro le strutture detentive per migranti.
Ma ci vuole coraggio anche nel lottare contro ogni forma di deumanizzazione, non solo politica, ma anche narrativa. E’ così che il ricordo di Mariama Sylla, che ha descritto Ousmane come un ragazzo gentile, amato da tutti, che non ha mai sopportato le ingiustizie, diventa la restituzione di quella umanità che spesso sia lo Stato che anche molti media tolgono sistematicamente alle persone migranti. Ma quella stessa vita a cui si restituisce l’umanità che si è tentato di togliere, diventa anche un momento di risignificazione forte di quando quella vita ha cessato di esistere, Mariama del suicidio del fratello dice infatti che «No, non si è suicidato. Ha visto che se non fosse stato per lui le persone lì dentro avrebbero continuato a soffrire in silenzio. E ha deciso di dare la sua vita per questa causa».
Certamente non possiamo sapere il significato reale del gesto di Ousmane, ma possiamo cogliere il senso di una reazione ad un sistema criminogeno che si esprime nella sua massima forma proprio nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, una reazione costante in tutte le altre persone detenute nei CPR che quotidianamente protestano per le condizioni in cui si trovano. Una reazione che ci interpella direttamente, chiamandoci a rispondere, solidarizzare e continuare a batterci attraverso gli strumenti che abbiamo per far sì che i Centri di Permanenza per il Rimpatrio vengano chiusi, senza se e senza ma.