“Violazione del diritto all’unità familiare”: per questo la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia, a seguito dell’espulsione di una cittadina bosniaca.
Questi i fatti: il 20 luglio 2005 la prefettura di Teramo ordina l’espulsione della donna, trovata priva del permesso di soggiorno durante un controllo. La donna viene trasferita nel CIE di Ponte Galeria, in attesa dell’espulsione.
Il 2 agosto 2005 la signora, assistita da un legale dell’associazione Progetto Diritti, presenta ricorso dinanzi al giudice di pace di Teramo, invocando il suo diritto al rispetto della vita familiare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione per i diritti dell’uomo. La donna, in Italia dal 1988, ha infatti contratto matrimonio a Roma, ed è madre di 5 figli.
Al rigetto del ricorso, avvenuto il 24 agosto 2005, la donna si appella alla Corte europea.
Il 2 settembre 2005, la Corte accoglie il ricorso, e inoltra la sentenza alla rappresentanza d’Italia presso il Consiglio d’Europa, che provvede a sua volta a comunicare la decisione al CIE di Ponte Galeria.
Tutto inutile: la mattina del 6 settembre 2005, la donna viene accompagnata all’aeroporto e imbarcata sul volo in partenza alle ore 10 per Sarajevo.
Il 9 novembre 2006, più di 13 mesi dopo la sua espulsione, la donna riesce a tornare in Italia, munita di un permesso di ingresso sul territorio fornito dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo. Il 12 marzo 2007 viene revocato il decreto di espulsione, e il Ministero dell’Interno rilascia alla signora un permesso di soggiorno valido fino al 14 dicembre 2013.
Il 4 dicembre scorso, la Corte europea si è espressa in merito alla vicenda e al comportamento delle istituzioni italiane, dichiarando che “la misura dell’espulsione di cui la ricorrente è stata oggetto ha costituito una ingerenza nel diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”. Ingerenza che, come ha ricordato la Corte, è prevista in una società democratica come misura “necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Non è questo il caso in questione: la Corte ha infatti evidenziato come “la misura controversa non sia stata proporzionata all’obiettivo perseguito”, condannando l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione. L’Italia dovrà inoltre versare alla ricorrente diciasettemila euro.
L’associazione Progetto Diritti si è detta soddisfatta per questa sentenza che, se da una parte “rende giustizia a una donna trattata in modo inumano dalle istituzioni italiane e riafferma i diritti fondamentali dei migranti come di ogni cittadino”, dall’altra conferma “la disumanità delle prassi seguite in materia di immigrazione”.
Leggi la sentenza: http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU805989