
Venerdì è stata pubblicata la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in merito al concetto di paesi sicuri, a partire del caso di due cittadini bengalesi soccorsi nel Mediterraneo e poi trasferiti nel CPR albanese di Gadjer, in quanto il Bangladesh è considerato un paese sicuro per il governo italiano.
Il concetto di paese sicuro è ritornato fortemente al centro del dibattito nel 2024, quando il Tribunale di Roma ha iniziato a non convalidare i trattenimenti delle persone migranti nelle strutture albanesi. A fronte di ciò il governo italiano, durante il Consiglio dei Ministri del 21 ottobre, ha definito tramite decreto una propria lista di paesi sicuri. Ora la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 1 Agosto 2025, stabilisce che uno Stato membro dell’Unione Europea non può designare un paese di origine come sicuro, se questo non offre protezione e rispetto dei diritti per tutta la popolazione. Ma non solo:
«Gli articoli 36 e 37 nonché l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che:
essi non ostano a che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi quali paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, a condizione che tale designazione possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale vertente sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato Ia detta direttiva, da parte di qualsiasi giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione concernente una domanda di protezione internazionale, esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paesi di origine sicuri.»
Una sentenza che tutela il diritto al ricorso delle persone migranti in caso di trattenimento – come accaduto e come sta accadendo tuttora; ma che soprattutto riporta nei ranghi della giurisprudenza la nozione di paese di origine sicuro stabilita dalla direttiva 2013/32/UE. Nel dicembre 2024 già la Cassazione aveva affermato che sebbene il governo potesse designare una propria lista di paesi di origine sicuri, i giudici erano legittimati alla disapplicazione di quel decreto, la corte di Giustizia UE conferma quanto già detto dalla Corte di Cassazione. Come spiegava Gianfranco Schiavone nel 2024, il concetto di paese sicuro è una nozione giuridica, non politica, motivo per cui la sua ridefinizione è materia di giurisprudenza: la sentenza ribadisce la necessità che i giudici nazionali verifichino i requisiti giustificanti la designazione di un paese in quanto sicuro – requisiti che devono riguardare tutta la popolazione di suddetto stato e non una parte, come la sentenza evidenzia in più punti.
La sentenza dunque non si limita semplicemente a bocciare il cosiddetto “modello Albania”, come riportato in molti articoli, se non come conseguenza indiretta, giacché l’impianto politico e propagandistico dei Centri in Albania regge anche sulla nozione di paesi sicuri. La sentenza, in particolare, sottolinea il primato del diritto europeo sulla normativa nazionale e, soprattutto, svela come dal punto di vista normativo le attuali politiche migratorie continuino a ledere i diritti fondamentali delle persone migranti.
Palazzo Chigi, in una nota, lamenta ancora una volta l’ingerenza della magistratura – questa volta UE – sulle politiche migratorie adottate dall’attuale governo, torcendo nuovamente il significato di “divisione dei poteri” in suo favore. Non bisogna credere che questo non porti ad ulteriori risposte normative stringenti in materia di politiche migratorie e soprattutto di detenzione amministrativa: ricordiamo la recente pronuncia della Corte Costituzionale sui modi di trattenimento all’interno dei CPR – i quali non sono disciplinati da fonti normative primarie, ma solo da fonti secondarie – cosicché le modalità di trattenimento all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio provochino una violazione della libertà personale. Non possiamo escludere che ulteriori decreti legge arrivino anche in risposta a quest’ultima sentenza, per porre un’ulteriore stretta sui diritti delle persone in movimento e delle persone detenute all’interno dei CPR, ciò nonostante stiamo assistendo nuovamente ad un’ulteriore breccia che si è aperta nel dibattito sulle politiche migratorie, breccia che può aprire le porte ad azioni legali e di mobilitazione in favore delle persone migranti.