
Il libro di Enrico Gargiulo, Contro l’integrazione. Ripensare la mobilità, Meltemi, Milano 2024, pp.170, € 14, è il terzo di una nuova collana, Posizionamenti, all’interno di una Serie dal titolo Sociologia di Posizione.
Non esiste ricerca che non sia posizionata. Se un gruppo di ricercatori sente il bisogno di ribadirlo, è segno della miseria dell’accademia, che finge di produrre ricerca neutrale, come se non fossero mai esistite l’epistemologia fenomenologica o la meccanica quantistica a dichiararne l’impossibilità: e come se non ci fossero mai state nella storia censura, acquiescenza e autocensura.
Il testo di Gargiulo interviene su un tema particolarmente inquinato dalle retoriche politiche e sociali e da costruzioni giuridiche che rendono praticamente vera, come diceva un classico, l’ideologia dominante.
Due generazioni fa Umberto Eco notava che la nozione di integrazione veniva dissimulata, e andava individuata nelle pratiche discorsive della cultura di massa e nella loro accettazione; e poco più tardi sui Quaderni piacentini emergeva l’opportunità euristica di tale nozione per indicare la continuità dell’assoggettamento della forza lavoro al di là dei cambiamenti di metodo nel passaggio dal fascismo alle democrazie. Oggi lo spettacolo è desolante: ingenui o sfacciati, astuti o folli, son tutti in fila a sbandierare intenti integratori, e naturalmente a rinfacciare ad altri l’inefficacia del proprio operato o la renitenza congenita a “farsi integrare”.
C’è un’unica maniera per ripensare il quadro, ed è disintegrarlo criticamente. È quello che fa con freschezza di scrittura e nitore dell’argomentazione Enrico Gargiulo. In questo caso posizionarsi non significa solo dichiarare la postura assunta per dare senso e sbocchi pratici alla ricerca, ma anche ripercorrere l’etichetta che indica insieme una motivazione poco innocente e un problema sociale costituito e consolidato. C’è chi vuole “integrare”, chi propone forme più adeguate di “integrazione”, e intanto la nozione cala giù dai discorsi istituzionali, penetra nel senso comune, viene istituita come problema sociale con dei protagonisti che per la verità avrebbero voluto essere attori di altro che non di una messa in scena così falsificata, e di cui sempre più spesso fanno fatica a liberarsi: perché è vero, come Gargiulo chiarisce perfettamente altrove, che “in un mondo perimetrato da costrutti giuridici e documentali, gli individui tendono a fare propri i concetti pensati per intercettarne i comportamenti e gli stili di vita” (Sociologia di posizione, curato da De Nardis, Petrillo e Simone, Meltemi 2024)
Contro l’integrazione, dunque, senza finzioni neutralizzanti, del genere: “analisi critica del concetto di integrazione”; fornendo dubbi, spunti e strumenti a chi prende posizione; e attingendo all’unico serbatoio di strumenti pratici che il buon ricercatore conosca: la teoria. Diceva K. Lewin che “non c’è niente di più pratico di una buona teoria”: qui tale assioma viene praticato con il ricorso a testi di straordinario spessore epistemologico, come quelli di Canguilhem e Hacking, tenendo fermo che la normalizzazione degli individui richiede la normalizzazione delle categorie, e quindi l’istituzione di norme naturalizzate e opposte alla patologia, alla devianza, all’inferiorità misurata su scale cui specialisti lavorano per tutta la vita.
Affabile ma rigoroso, Gargiulo mostra i nessi sottostanti a costrutti sociali che per essere criticati efficacemente hanno bisogno di essere collegati: l’integrazione, l’appartenenza culturale, la sedentarietà. Alla base, il pensiero di stato, che propone un’ontologia sociale in cui le società vengono rappresentate come internamente omogenee, rimuovendo il conflitto che le istituisce, mentre le differenze sono ricondotte a culture che determinerebbero i comportamenti e le idee dei singoli individui e gruppi.
Così integrazione diventa una parola chiave di gestione delle pluralità. Centrale per questo processo è la negazione della mobilità delle persone.
Per motivi di spazio nel volumetto si evita di ricostruire la storia della nozione di integrazione, adoperata a salvaguardare l’ordine sociale, vincolando gli attori sociali grazie a norme che vengono raccontate come espressione dei valori di fondo di una società: un nome per tutti, Talcott Parsons. A lungo, preoccupati di usare integrazione per indicare la tenuta complessiva di una società, i sociologi hanno evitato di fare i conti con questa impronta culturalista del termine, che è riemersa, come una eredità non ancora attivata, quando – impallidite le argomentazioni su struttura e conflitto, cambiamento e tenuta – giuristi e sociologi si son trovati di fronte a presenze percepite come estranee a quel nodo valori-cultura-nazione-struttura sociale: e così hanno istituito come un ostacolo (da superare con la produzione di nuove norme) la presunta diversità etno-culturale, con i bei risultati messi in luce in questo prezioso libretto: al posto del conflitto sociale è stato messo lo scontro tra culture, naturalizzando una categoria che era stata costruita per comprendere fenomeni non-naturali e proiettando il nemico degli sbandierati valori non all’esterno o in una parte portatrice di conflitto, bensì in gruppi interni alla società (perché arrivati da fuori), ma proclamati come esterni (in quanto diversi “culturalmente”). Non si riesce ad accettare individui mobili e perciò ricchi di esperienze e soggetti al cambiamento se non come determinate da alterità sulle quali si proietta, deformandola caricaturalmente, la nozione di cultura che aveva permesso agli antropologi per tanto tempo di dar conto di comportamenti inattesi per l’osservatore. E l’ancoramento della cultura di destinazione ai valori e alla nazione nasconde che i valori sono portatori di sopraffazione e la nazione è un modo per inventarsi nemici, anche interni, contro cui muovere guerra.
Nell’ultimo decennio Gargiulo ha scritto alcuni saggi raffinati e persuasivi sulle politiche di civic integration in Europa, mostrando dietro la facciata di retoriche e atti amministrativi la brutalità con cui vengono condotte le politiche di accettazione di persone che si muovono in cerca di lavoro e di possibilità di esistenza. Qui un’analisi più sintetica mostra come ogni integrazione proposta e imposta sia due volte subalterna: nel ruolo affidato ai nuovi venuti, e nei discorsi di chi loda le magnifiche sorti e progressive di quel costrutto. Celando che i valori sono sempre valutati, e costruite le categorie discorsive e di analisi. E perciò, contro l’integrazione.
Giuseppe Faso