Era il 2008 quando un deputato della Lega Nord presentava una mozione per richiedere delle classi separate per gli studenti e le studentesse con background migratorio, affinché potessero apprendere l’italiano senza “rallentare” gli studenti e le studentesse italiani, i quali (a detta del Deputato) spesso si ritrovavano indietro con il programma accademico annuale proprio per aspettare che i compagni e le compagne di classe riuscissero ad essere in pari con alcune competenze di base.
Il tutto condito da locuzioni come “Per una reale integrazione” o “E’ necessario contrastare la dispersione scolastica” per giustificare un progetto fin troppo simile alle classi differenziali abolite nel 1975.
Oggi a riprendere queste idee è l’attuale Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che in un’intervista relativa alla pubblicazione del suo libro “La scuola dei talenti”, torna a proporre (vecchie) soluzioni al tema della cosiddetta “integrazione” della componente studentesca con background migratorio.
La proposta
Il ministro, infatti, propone di inserire gli alunni e le alunne di origine straniera in classi separate, previo un eventuale test per verificare le competenze, in cui recuperare lo studio della lingua italiana e, eventualmente, lo studio della matematica. A detta del Ministro, vedendo i dati delle prove Invalsi sembrerebbe infatti che la componente studentesca di origine straniera presenti delle lacune maggiori in Italiano e in Matematica rispetto agli studenti e alle studentesse per così dire “italiani autoctoni” – se questa definizione può avere senso. Per “risolvere” il problema, il ministro propone di separare i percorsi didattici degli alunni o di introdurre classi separate in cui i giovani e le giovani di origine straniera dovrebbero seguire il percorso didattico separatamente dagli altri compagni. Oppure, ipotizza di prevedere questa separazione – come avviene ad esempio in Francia o Germania – solo per l’apprendimento di specifiche materie scolastiche di indirizzo, come appunto la lingua italiana e la matematica.
La scuola tra merito e difficoltà
Nonostante le apparenti buone intenzioni del ministro, il quale dichiara che solo così si può risolvere il problema dell’“integrazione” delle giovani persone di origine straniera, questa proposta si inserisce in realtà in un preciso quadro che da un lato predilige un’idea di scuola basata ancora una volta sul merito anziché sul valore della condivisione dei saperi e, dall’altro, invece di risolvere il problema delle «classi ghetto», rischia di amplificarlo.
Ancora una volta, infatti, si chiede alle persone di origine straniera di “meritarsi” di far parte della società, misurando questo stesso merito sulla base delle «performance» e dei risultati ottenuti, oramai gli unici parametri con cui da anni vengono valutati la scuola stessa e il percorso dei soggetti in formazione. Se questi criteri quantitativi non possono in nessun modo fornire una rappresentazione realistica di tutto il difficile lavoro che viene fatto e soprattutto della crescita che si compie a scuola tanto a livello di conoscenza quanto a livello di esperienze, il metro di misura performativo dei risultati scolastici non può essere il punto di partenza per ripensare un maggior coinvolgimento delle soggettività con background migratorio.
Quando il ministro, infatti, menziona il cosiddetto problema dell’“integrazione” nella scuola ignora, od omette, la reale complessità del tema che è condizionato da molteplici aspetti, come, ad esempio, il rapporto fra scuola e genitori, la formazione del personale scolastico e l’eventuale ampliamento dello stesso con una maggior presenza di mediatori culturali.
Da considerare è anche la gestione degli alunni con Bisogni Educativi Speciali tra i quali rientrano moltissimi giovani di origine straniera: questi infatti avendo spesso uno svantaggio linguistico, seguendo la denominazione della Direttiva Ministeriale 27/12/12, avrebbero diritto ad un piano didattico personalizzato compensativo, tuttavia spesso la risoluzione che viene adottata, quando sono presenti le risorse per farlo, è l’affiancamento di un insegnante di sostegno, creando non solo divisione all’interno della classe, ma anche una forma di patologizzazione degli studenti e delle studentesse per il solo fatto di non sapere l’italiano.
Una proposta che sa di nuova propaganda
Questi sono solo alcuni esempi delle difficoltà che gli studenti e le studentesse – di origine straniera e non – riscontrano quotidianamente nelle scuole e che da anni associazioni antirazziste, organizzazioni studentesche e tutto il mondo del terzo settore che lavora a stretto contatto con il mondo dell’educazione, denunciano.
Proporre delle classi separate, in tutte le forme o livelli che il ministro illustra, non potrà mai essere una soluzione, ma solo un’ulteriore risposta propagandistica che sottovaluta il valore educativo delle relazioni che si creano tra i banchi di scuola e come queste facilitino l’apprendimento. Una propaganda che si mostra per quello che è quando il ministro, in un salto logico, riesce a collegare la microcriminalità tra i giovani delle «baby-gang» e la scuola, come se questo fenomeno fosse direttamente collegato al rendimento scolastico; come se non ci fossero altri fattori criminogeni all’interno della società, come se alla fin fine, fosse necessario trovare una nuova ragione per criminalizzare i giovani e le giovani di origine straniera.
Nonostante questa proposta attualmente sia uscita pubblicamente solo attraverso la stampa, è importante evidenziarne sin da subito la faziosità: in questa strada lastricata di (pseudo) buone intenzioni a rischiare di perdere sono ancora una volta i giovani e la scuola.
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