
Se vi diciamo “advocacy”, cosa vi viene in mente? Quali iniziative nell’ambito delle migrazioni e della lotta al razzismo vi evoca questa parola?
La lunga storia dell’immigrazione in Italia ha favorito, nel corso degli anni, la nascita di un universo antirazzista plurale e variegato dal punto di vista della composizione sociale, dell’assetto giuridico e formale, dell’ambito territoriale di intervento, delle priorità e delle modalità di lavoro, dei modelli e delle pratiche di partecipazione. Alle esperienze di volontariato di carattere assistenziale, si affiancano organizzazioni più strutturate che operano con personale remunerato, i gruppi e le campagne di pressione sui decisori pubblici, le esperienze di mutuo-aiuto, molte delle quali promosse in forma auto-organizzata dai migranti, i comitati e i movimenti di lotta sul territorio, che spesso aprono vertenze vincenti con le istituzioni locali. Si tratta di realtà che intervengono in molteplici ambiti: dalla gestione dell’accoglienza (non solo materiale), alle azioni di denuncia delle violazioni dei diritti (sociali, all’istruzione, sul lavoro, nei Centri di detenzione), delle discriminazioni e del razzismo istituzionale, al monitoraggio e al mutuo-soccorso nelle zone di frontiera, sino a promuovere (per colmare ciò che dovrebbe fare lo Stato) missioni di ricerca e di soccorso in mare.
Ma quanto e come è praticata l’advocacy dal movimento antirazzista italiano?
Dopo un anno di lavoro, Lunaria pubblica online il rapporto “Priorità sociali, partecipazione e pratiche di advocacy. L’esperienza di 20 realtà antirazziste italiane”, realizzato nell’ambito del progetto BABI promosso in collaborazione con Antigone (Grecia), SOS Racisme (Spagna) e SOS Malta (Malta).
Il principale obiettivo di quella che potremmo definire più un’inchiesta sociale, piuttosto che una ricerca in senso proprio, è stato quello di ascoltare le voci di alcune realtà italiane che si sono distinte in questi anni nel nostro paese per aver cercato di innescare un cambiamento culturale, politico o sociale nelle modalità con le quali la società italiana complessivamente intesa (le istituzioni locali e nazionali, i partiti, i media, le burocrazie amministrative, ma anche il mondo della scuola, i diversi attori presenti nel mondo del lavoro, l’ambiente della cultura) si relaziona con i cittadini stranieri e di origine straniera, con i Rom e con le minoranze più esposte a fenomeni di discriminazione, di xenofobia e di razzismo.
L’esigenza di realizzare questo percorso è nata dalla constatazione delle difficoltà incontrate negli ultimi anni nel tentativo di orientare in modo concreto ed efficace gli atti, le decisioni, i comportamenti istituzionali e sociali, nella direzione dell’effettiva garanzia dei diritti di cittadinanza, di un’applicazione sostanziale del principio costituzionale di eguaglianza e della costruzione di una maggiore giustizia sociale.
Indipendentemente dall’utilizzo che il mondo antirazzista fa della definizione di advocacy a livello teorico, una pluralità di iniziative perseguono il cambiamento sociale e la garanzia dei diritti delle persone. Si cerca di riorientare direttamente le scelte dei decisori politici. Azioni legali strategiche tentano di provocare in modo indiretto riforme legislative. Vecchi e nuovi strumenti di comunicazione si prestano alla denuncia delle diverse forme di discriminazione e di razzismo istituzionale. Molteplici azioni di solidarietà collettiva dal basso colmano il vuoto lasciato dalle istituzioni. Eventi e mobilitazioni pubbliche (dai sit-in ai flash-mob, dal mail-bombing alle lettere aperte ai decisori pubblici, dalle petizioni online, alle manifestazioni di piazza) tentano di scuotere l’indifferenza dell’opinione pubblica e della politica.
Con le 20 interviste condotte con realtà locali e nazionali del movimento antirazzista italiano (tra associazioni storiche e molto strutturate, comitati locali e movimenti informali), presentate nel rapporto, abbiamo cercato di conoscere meglio le esperienze di advocacy promosse in tre particolari aree di intervento (antidiscriminazione, welfare e lavoro), concentrando l’attenzione su quelle che superano i confini imposti dall’agenda politica e istituzionale (focalizzata “sull’emergenza” permanente delle politiche migratorie) e privilegiano la garanzia dei diritti di cittadinanza dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
Le interviste svolte mostrano un mondo molto dinamico che persegue il cambiamento sociale adottando strategie e metodologie d’intervento molto diverse e che sta cercando di confrontarsi con alcune questioni di fondo. Come possiamo rendere le nostre battaglie più forti e, soprattutto, vincenti? Abbiamo fatto degli errori e se sì, quali sono? Possiamo evitare di ripeterli? Quali sono i vincoli, interni e esterni a noi, che determinano il successo o l’insuccesso delle nostre battaglie? Quanto conta come ci organizziamo, come prendiamo le decisioni, come scegliamo le priorità su cui concentrare il nostro impegno? Come comunichiamo con chi non è già al nostro fianco? L’erogazione di servizi facilita o no la nostra capacità di identificare i bisogni sociali prioritari? E come e in che modo la rete di relazioni che si sviluppa grazie a ciò che facciamo innesca processi di partecipazione paritari effettivi, concreti e riconoscibili? Le forme di organizzazione, le tipologie delle iniziative messe in campo, la presenza e il radicamento sul territorio, la disponibilità di risorse e di competenze “tecniche” sono o no elementi rilevanti che condizionano l’esito delle nostre campagne per i diritti?
Si può fare advocacy senza saperlo, oppure si può rifiutare in modo critico e consapevole questo concetto, preferendo un’idea di giustizia e di cambiamento sociale dal basso. Resta centrale la partecipazione dei diretti interessati, chiave di volta determinante per innescare un vero cambiamento di rotta.