
Abbiamo 19 giorni di tempo per convincere le persone ad andare a votare i 5 referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno. Sono ancora molte le persone non informate e sono molte quelle che, pur condividendo nella sostanza i contenuti delle proposte avanzate, nutrono diffidenza nei confronti dello strumento referendario.
Ma l’appuntamento referendario è un fatto e apre uno spazio di partecipazione: decidere di disertarlo, come suggeriscono alcune importanti cariche dello Stato, significa rassegnarsi a un futuro di crescenti ingiustizie, disuguaglianze e discriminazioni.
L’insieme dei quesiti proposti ha una valenza che travalica gli specifici effetti concreti che sarebbero conseguenti a una vittoria del sì, perché investe il sistema di relazioni che intercorre tra le persone che vivono nel nostro paese e lo Stato nonché il modello di cittadinanza a cui aspiriamo.
Votare può fare la differenza, ricordiamo perché.
Sono in gioco il rafforzamento dei diritti sul lavoro e di cittadinanza di milioni di persone
Dopo anni di riforme che hanno colpito la dignità del lavoro, ristretto i nostri diritti, ridotto il lavoro a merce e a un costo da abbassare il più possibile, grazie alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, alla moltiplicazione delle tipologie di contratto flessibili e al blocco dei salari, i quattro referendum sul lavoro, abrogando delle norme ingiuste, ci danno la possibilità di cambiare segno.
Meno licenziamenti illegittimi. [scheda verde] Sarà ripristinato l’obbligo di reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 2015 in poi con il contratto a tutele crescenti nelle aziende di più di 15 dipendenti.
Via il tetto all’indennizzo in caso di licenziamento. [scheda arancione] Sarà eliminato il tetto per l’indennizzo oggi previsto in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Se passerà il sì, sarà il giudice a dover determinare l’importo dovuto.
Meno precarietà. [scheda grigia] Sarà ridotta la possibilità di usare contratti di lavoro a termine e sarà reintrodotto l’obbligo di una causale per il ricorso a rapporti di lavoro a tempo determinato di durata inferiore ai dodici mesi.
Più sicurezza sul lavoro. [scheda rosa] Nei casi di infortunio sul lavoro negli appalti, scatterà la responsabilità solidale tra committente, appaltatore e sub-appaltatore: tutti i soggetti coinvolti avranno gli stessi obblighi, ad esempio, di risarcimento.
Il quinto referendum che riguarda l’acquisizione della cittadinanza italiana [scheda gialla], prevede che il periodo di residenza legale richiesto ai cittadini stranieri non comunitari maggiorenni per presentare la domanda sia ridotto da 10 a 5 anni. La stima delle persone direttamente interessate dalla riforma varia tra i circa 1,6 milioni di cittadini stranieri non comunitari titolari di carta di soggiorno e i 2,6 milioni calcolati dal comitato promotore del referendum.
Un dibattito fuorviante che va rovesciato
Il dibattito politico che ha accompagnato sino ad oggi la campagna sulla cittadinanza ha riportato alla luce ruggini antiche, incrostazioni ideologiche e culturali che permangono al di là di ogni evidenza, ancorate a un’idea e a un modello di cittadinanza escludente e discriminatorio che, qualora continuassero a prevalere, allargherebbero ulteriormente la distanza tra la costituzione formale e la costituzione materiale del nostro paese. I temi sollevati sono per lo più attinenti alle relazioni intercorrenti tra cittadinanza, “identità e cultura nazionali”, migranti e diritti.
Chi esprime (da sempre) la propria contrarietà ad una riforma della legge sulla cittadinanza ricorre spesso ad argomentazioni che agitano il fantasma della perdita della “identità nazionale, culturale, religiosa”. Alla radice di una così agguerrita propensione xenofoba vi sono il disprezzo e la lontananza dalla società reale (quella che attraversa le nostre città, le nostre scuole, i nostri autobus, i posti di lavoro), ma soprattutto una concezione dell’“identità nazionale” che, per usare un’espressione riferita da Alessandro Portelli a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti di Trump, intende porre il razzismo a fondamento della Nazione.
Il dibattito aperto dal referendum sulla cittadinanza ci offre invece una nuova opportunità di ribaltare l’agenda della politica. Ci dà la possibilità di “normalizzare” non le discriminazioni, non la xenofobia, non il razzismo, ma la presenza nel nostro paese di persone che hanno un background familiare migratorio ma vivono da tempo stabilmente in Italia. Persone che non sono affatto “immigrate e immigrati” da “integrare” come spesso viene detto da molti per sostenere il Sì al referendum, perché sono già parte della società italiana. La cittadinanza non ha niente a che vedere con l’identità come abbiamo ampiamente scritto qui e qui e il referendum su cui siamo chiamati ad esprimerci l’8 e il 9 giugno non interviene a modificare i principi cardine su cui si fonda la legge n. 91/92.
Ma vale la pena tornare a ricordare che oggi più che mai appare del tutto obsoleta una concezione della cittadinanza ancora imperniata sul diritto di sangue, dunque sulla nazionalità. Insieme ai capitali, alle merci, alle produzioni artistiche e culturali viaggiano gli uomini e le donne e tanto più cresce la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra un paese e l’altro, tra un continente e l’altro, tanto più le migrazioni diventano una scelta obbligata per coloro che non sono disponibili ad accettare passivamente l’allargamento di queste diseguaglianze. Nei Nord come nei Sud del mondo, le società tendono sempre più ad essere “plurali” nei fatti, composte da persone di diversa origine nazionale. Mantenere un modello di cittadinanza ancorato al principio della nazionalità significa approfondire lo scarto tra la società formale e la società reale.
Per altro l’asserzione dell’esistenza di separazioni nette e irriducibili tra una persona e l’altra, tra un gruppo e l’altro, tra “identità” fisse e immutabili definite una volta per tutte, disegnate in modo irrevocabile dai confini nazionali o dalle differenze religiose, è un’immagine distorta, artificiosa della realtà, uno specchio maligno che trova purtroppo ancora il suo riflesso nella legislazione sulla cittadinanza e sul diritto di voto per non parlare delle norme che regolano l’ingresso e il soggiorno dei migranti nel nostro paese (che però, è bene ricordarlo, nulla hanno a che vedere con la riforma della legge sulla cittadinanza).
Il referendum sulla cittadinanza ci offre insomma l’occasione di riflettere sul nostro futuro. La costruzione tutta politica di una relazione di competizione tra i diritti dei cittadini nazionali e dei cittadini stranieri serve a distogliere il nostro sguardo dalle diseguaglianze economiche e sociali che crescono, dall’impoverimento che attraversa le nostre vite, dalla sfiducia nelle istituzioni che si è radicata nel nostro comune sentire, dalle scelte politiche che trasformano i diritti sociali garantiti dalla nostra Costituzione in privilegi per pochi garantiti ai soliti noti.
Abbiamo fame di giustizia sociale e non la troviamo. L’8 e il 9 giugno abbiamo la possibilità di mettere un punto andando a votare 5 sì e dimostrare che possiamo (ancora) contare. Se questo avverrà, sarà un primo passo per riforme ancora più incisive per i diritti di tutte e tutti, contro ogni forma di diseguaglianza, di discriminazione e di razzismo.