La mancata riforma della cittadinanza italiana
Sergio Bontempelli
In occasione delle Olimpiadi 2024, il tema della riforma della cittadinanza è ricomparso nel dibattito politico a seguito delle dichiarazioni rilasciate da alcuni leader della maggioranza e del lancio di una campagna referendaria che propone di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza per poter richiedere la cittadinanza italiana. Informazioni dettagliate sono disponibili qui: https://referendumcittadinanza.it/
Per offrire un contributo alla discussione, anticipiamo qui la parte introduttiva di un lungo contributo che Sergio Bontempelli ha scritto per il nuovo Libro bianco sul razzismo, di prossima pubblicazione.
Una legge vecchia, e un dibattito fuorviante
La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana risale all’ormai lontano 1992: fu concepita e approvata in un periodo in cui i flussi migratori dall’estero erano relativamente contenuti, e in cui questioni che negli ultimi anni hanno acquisito grande rilevanza – come quella dei figli di stranieri nati sul suolo italiano, ma non riconosciuti come cittadini italiani – non erano ancora oggetto di un ampio dibattito pubblico.
Si tratta dunque di una legge vecchia, del tutto inadeguata a regolare fenomeni profondamente mutati nel tempo. Non a caso da almeno due decenni associazioni, movimenti di base, intellettuali ed esponenti politici (questi ultimi soprattutto di centro-sinistra) invocano una riforma complessiva della cittadinanza. Il dibattito degli ultimi anni, tuttavia, è stato segnato da almeno due rilevanti limiti: il primo di carattere – per così dire – «tematico», l’altro di natura più ideologica.
In primo luogo, la discussione si è concentrata quasi esclusivamente sui minori nati in Italia da genitori immigrati, e dunque sull’ampliamento del cosiddetto «ius soli». Si tratta di un tema di indubbia rilevanza, se solo si pensa che, oggi, quasi un quinto degli stranieri residenti sono nati e cresciuti nel nostro Paese (sono quindi «stranieri» unicamente in base a una forzatura giuridica…): e tuttavia, la questione dell’accesso allo status civitatis e ai diritti che gli sono connessi è assai più ampia, come vedremo tra poco, e meriterebbe di essere affrontata in tutta la sua complessità.
In secondo luogo, la cittadinanza italiana (che è, o dovrebbe essere, nient’altro che uno status giuridico) è stata sistematicamente confusa con l’«italianità», nozione dai contorni quanto mai vaghi che indicherebbe un insieme di (presunti) caratteri identitari nazionali. A loro volta, questi caratteri identitari vengono rintracciati talora nella lingua («è italiano chi parla italiano»), talora nella «cultura» o nelle «tradizioni», ma non sono rari i casi di esplicita razzializzazione della nazionalità, per cui sarebbe italiano solo chi può vantare una discendenza tutta italiana (o addirittura chi ha i tratti somatici «giusti», cioè chi è bianco e caucasico…).
L’accesso allo status di cittadino, d’altra parte, è pensato come il risultato ultimo di un processo di «italianizzazione», cioè di acquisizione di una identità e di un modo di essere compiutamente italiani. Se questa «identità» è definita in termini culturali, il percorso di progressiva acculturazione è ritenuto possibile (uno straniero può benissimo acquisire gli usi, i costumi o i «valori» della società ospitante), e magari anche auspicabile. Al contrario, per chi pensa che siano i tratti somatici o la discendenza a decidere chi è davvero cittadino, l’assimilazione è un obiettivo irraggiungibile quasi per definizione: i genitori e i nonni non si possono cambiare, la pelle nera non può diventare bianca, e i lineamenti «esotici» (o presunti tali) non possono trasformarsi in fattezze «caucasiche» o «ariane». È per questa motivazione razziale che le destre sono restie a riconoscere la cittadinanza agli immigrati lungo-residenti, o ai loro figli nati e cresciuti nel territorio nazionale. Ed è sempre per questo motivo che il generale Vannacci si ostina a considerare straniera la pallavolista afrodiscendente Paola Egonu, che pure ha un regolare passaporto italiano e per di più rappresenta il nostro Paese nelle più prestigiose competizioni sportive.
Torneremo tra poco su questa razzializzazione della nazionalità, e sulle sue conseguenze. Qui ci interessa soffermarci sulla confusione tra uno status giuridico (la cittadinanza, appunto) produttore di diritti e di doveri, e una identità personale – comunque definita – associata ad una appartenenza collettiva. Nel dibattito pubblico questa confusione è molto frequente, tanto da essere entrata ormai nel senso comune. Si sente dire spesso, ad esempio, che i bambini nati in Italia da genitori stranieri meritano la cittadinanza perché anche loro in fondo, sono «come noi»: mangiano gli spaghetti (o la pizza), parlano in dialetto, tifano per la Juventus (o per l’Inter, il Milan, il Torino o l’Atalanta…), guardano Sanremo e la domenica vanno alla partita. Come se lo status giuridico e i diritti che ne derivano dovessero dipendere dall’adozione di usi e costumi «da italiani».
Questa sovrapposizione tra identità e status produce effetti deleteri. Il primo effetto è una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di caratteri identitari. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua «italianità», la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non padroneggia la lingua italiana, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita «da straniero» (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà comunque a essere giuridicamente un cittadino italiano. Anni fa, in un articolo pubblicato sul settimanale Left, facevo notare scherzosamente che a Giorgio Gaber (che cantava «questa nostra Patria / non so che cosa sia / io non mi sento italiano…») nessuno propose mai di revocare la nazionalità. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli stranieri: non serve per preservare una qualche omogeneità etno-culturale della popolazione (ammesso, e ovviamente non concesso, che tale omogeneità sia un obiettivo di per sé desiderabile) ma a gettare un’ombra di sospetto sull’«alterità» (vera o presunta) della componente straniera e immigrata.
Ancor più mistificante è l’idea secondo cui essere cittadini significherebbe condividere dei «valori»: chi non accetta i «nostri valori», si dice, non dovrebbe diventare italiano. A molti sembra un discorso di buon senso, e invece è carico di presupposti stigmatizzanti: quali sarebbero mai questi presunti «valori» dell’italianità? Spesso si fa riferimento all’uguaglianza di genere, o al rispetto dei diritti umani: ma davvero pensiamo che il nostro Paese si fondi su questi principi etici? Basta dare un’occhiata alle statistiche sul gender gap, o alla condizione in cui versano le nostre carceri, per nutrire qualche dubbio in proposito. Anche in questo caso, siamo di fronte a un discorso che non mira tanto a definire l’identità nazionale, quanto a etichettare negativamente chi viene da fuori: «loro non rispettano le donne, non sono come noi…». E questa funzione stigmatizzante diventa ancor più esplicita quando alla retorica dei «valori» si affianca il riferimento alla nostra (presunta) «civiltà»: quando cioè si allude alle «radici cristiane dell’Europa», o a una non meglio definita «cultura occidentale», rispetto alla quale gli immigrati sarebbero estranei e nemici; qui, evidentemente, l’appello alla dimensione valoriale serve soprattutto a escludere i musulmani, percepiti come un’alterità irriducibile e vagamente minacciosa.
Proprio la retorica dei valori ci introduce al secondo motivo per cui occorre respingere la facile equazione tra status giuridico e identità. In uno Stato compiutamente laico, quale l’Italia è o dovrebbe essere, le autorità pubbliche sono neutre non solo rispetto alle appartenenze religiose, ma anche rispetto alle opzioni etiche e politiche dei propri cittadini. Imporre dei «valori» o – peggio – gabellarli come fondamento dell’identità collettiva significa aprire le porte a uno Stato etico (non più laico). E significa anche espellere simbolicamente dalla nazione – cioè stranierizzare – tutti coloro che non condividono i «valori di Stato»: se il «vero italiano» è cattolico, i cittadini protestanti o ebrei diventano di colpo italiani di serie B; se l’Italia esiste in quanto ha radici «giudaico-cristiane», i non credenti, i musulmani o i buddisti si trasformano in ospiti sgraditi o a malapena tollerati, anche se hanno in tasca un passaporto del nostro Paese.
La cittadinanza andrebbe dunque svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione del richiedente alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama «fondata sul lavoro», dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta omogeneità culturale o, peggio ancora, a caratteristiche etno-razziali, non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni.
- La versione completa del contributo sarà pubblicata in Lunaria (a cura di), Cronache di Ordinario Razzismo. VI° Libro bianco sul razzismo in Italia, 2024 di prossima pubblicazione.