Il 21 marzo si è celebrata anche la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”. Quest’anno alla celebrazione si è aggiunta una buona notizia. La quinta sezione della Corte di Cassazione ha annullato, nei giorni scorsi, con rinvio, la sentenza di assoluzione emessa in Appello, nei riguardi degli imputati coinvolti nella clamorosa inchiesta denominata “Sabr”, che, nel maggio del 2012, aveva condotto a 22 ordinanze di custodia cautelare in carcere per “riduzione in schiavitù”.
L’indagine aveva fatto luce su un’organizzazione a struttura piramidale: al vertice, gli imprenditori locali (salentini e non solo), accordati tra loro in una sorta di “cartello”, che si sarebbero affidati ai “reclutatori” (basati anche in Sicilia), il cui compito era far arrivare lavoratori dall’estero; a seguire, i “caporali” o capi cellula, impegnati nella gestione degli spostamenti dei braccianti entro i confini italiani. Alla base della piramide, infine, i braccianti, sottoposti a turni massacranti (10-12 ore al giorno senza riposo settimanale) in cambio di paghe irrisorie (20-25 euro al giorno e molto spesso al nero), decurtate dai “padroni” delle spese per vivande e trasporto.
Era un’associazione a delinquere che avrebbe schiavizzato i lavoratori nei campi per la raccolta di angurie e pomodori. Non solo a Nardò. I braccianti venivano spostati come “pedine” in Puglia, Calabria, Campania o Sicilia, in base alle esigenze di raccolta stagionale.
Nel 2017, in primo grado, il tribunale di Lecce aveva riconosciuto per la prima volta il reato di “riduzione in schiavitù” e condannato i cosiddetti caporali a pene altissime. Il processo aveva fatto emergere le condizioni degradanti in cui i lavoratori erano costretti a vivere (condizioni igieniche a dir poco precarie e insalubri, mezzi di trasporto sovraffollati e giacigli fatiscenti ove passavano la notte), e i ricatti a cui dovevano sottostare, pena la perdita del lavoro.
Tre anni fa, nel 2019, la Corte di Assise di Lecce aveva clamorosamente assolto imprenditori e caporali dall’accusa: sedici persone in tutto, nove cittadini stranieri e sette imprenditori salentini. L’assoluzione riguardava sia il reato associativo che quello di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, perché per i giudici di secondo grado non era previsto dalla legge come reato. Per tutti gli imputati assolti era stata disposta la nullità del capo di imputazione di estorsione, ossia di avere sfruttato la necessità dei lavoratori stranieri di avere un permesso di soggiorno e un lavoro, la mancata conoscenza della lingua italiana e la marginalizzazione, per costringerli poi ad orari massacranti e a paghe misere.
Il luogo simbolo di questa grave vicenda è proprio la masseria Boncuri, situata nelle campagne di Nardò. È lì che, fra il 2008 e il 2011, veniva calpestata la dignità umana e si manifestava in tutta la sua crudeltà ed efferatezza la brama di ricchezza di persone senza scrupoli.
A fare ricorso contro l’ultima assurda decisione di assoluzione, erano stati il procuratore generale Giovanni Gagliotta e le parti civili, Yvan Sagnet, l’ingegnere camerunese divenuto simbolo della rivolta dei braccianti del 2011, altri sette braccianti, la Regione Puglia, Cgil Camera del lavoro, Flai-Cgil, e l’associazione Finis Terrae che gestiva la masseria Boncuri.
“Vittoria per i lavoratori. È stata al momento riparata un’ingiustizia a danno di migliaia di lavoratori schiavizzati nelle campagne leccesi da imprenditori e caporali senza scrupoli. Una sentenza che mette parzialmente fine ad un sistema di potere a Nardò e non solo ai danni dei più deboli. Una vittoria per i braccianti e una speranza per tutti i lavoratori.”: è il commento di gioia affidato ai social dell’associazione No Cap, di cui lo stesso Sagnet è presidente.
Ci sarà, dunque, un nuovo processo di secondo grado. E forse, il nome dato all’inchiesta, “Sabr” (dal nome di uno dei caporali, Saber Ben Mahmoud Jelassi, detto “Sabr”, cittadino tunisino), intende ricordarci che in arabo significa anche “pazienza”. Quella necessaria ad affrontare questo lungo percorso giuridico per ottenere giustizia.