
Seid Visin aveva vent’anni. Giovedì scorso si è tolto la vita e l’ha fatto in modo che non vi fossero fraintendimenti. La sua morte, come quella di qualsiasi giovane che decide di suicidarsi è di per sé un fatto assurdo e inaccettabile. Che un ventenne, chiunque sia e dovunque viva, qualunque siano la sua professione, la sua estrazione sociale o il suo luogo di nascita, decida di spezzare la propria vita è qualcosa che ferisce, squarciando almeno per un attimo il muro dell’indifferenza collettiva e suscita, in chiunque, emozione, dolore e indignazione.
E la prima domanda che sorge è: perché?
Seid ha vissuto a Nocera Inferiore sino a quando non ha tentato la strada del calcio agonistico a Milano nella squadra giovanile del Milan. Poi un passaggio nel Benevento e la scelta di abbandonare lo sport agonistico per frequentare il calcetto con l’Atletico Vitalica e tornare a studiare. A leggere i messaggi diffusi dalle squadre che ha frequentato, lo sport per lui era innanzitutto una passione da vivere insieme ai compagni di squadra più che una fonte di reddito. E infatti ha scelto di abbandonare presto il calcio professionistico.
Seid non era “un immigrato”. Nato in Etiopia, è stato adottato da piccolo ed è cresciuto in Italia. Un giovane italiano con una vita intera davanti a sé.
E invece no.
Non sapremo mai perché Seid si è ucciso. L’unica cosa sensata che possiamo fare è rispettare il dolore dei suoi cari ed esprimere loro vicinanza e solidarietà.
La sua morte però ha riportato alla luce una lettera da lui scritta nel gennaio 2019 a un gruppo di amici e alla psicoterapeuta. Una lettera scritta due anni fa non può essere messa in relazione con la sua morte come hanno fatto un po’ troppo affrettatamente alcuni organi di stampa. Ma le parole che quella lettera contiene sono troppo limpide per essere ignorate e ci sembra giusto ricordarle senza cedere alla tentazione di metterle in relazione con la morte di Seid. Perché, ci sembra, potrebbero essere state scritte da molti altri giovani nati come lui in un paese diverso dall’Italia.
“Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani non trovassero lavoro. Dentro di me è cambiato qualcosa. Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco”.
Disagio, vergogna, sofferenza e paura sono stati d’animo provocati dalla xenofobia e dal razzismo che Said ha incontrato sulla sua strada. «Io non sono un immigrato» ha scritto. «Sono stato adottato da piccolo (…). Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto».
In quel capovolto c’è tutta la sofferenza provocata da un mondo in cui non si è più riconosciuto e che non ha riconosciuto più, quando ha sostituito sempre più spesso il rifiuto all’amore e al rispetto: «ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”.
Un mondo che gli ha chiesto e lo ha spinto continuamente a dover “dimostrare” il suo diritto di vivere in Italia: «Facevo battute di pessimo gusto su neri e immigrati (…) come a sottolineare che non ero uno di loro. Ma era paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati». E proprio questa necessità di dimostrare il diritto di avere diritti accomuna l’esperienza delle persone di origine straniera che vivono nel nostro paese.
La fine della sua lettera è una denuncia: «non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendoio sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”».
No, non ci sono parole più limpide per descrivere il modo in cui la xenofobia e il razzismo possono fare tanto male. Ed è tremendo poterle leggere solo perché Seid non c’è più. Dovrebbero almeno spingerci a riflettere su quanto sia grande la parte di razzismo quotidiano che non possiamo vedere perché resta imprigionato nella sofferenza delle solitarie esperienze individuali. E non possiamo evitare di tornare a chiederci quanto ci sarebbe da fare per trasformarlo in un problema collettivo condiviso da affrontare insieme, rafforzando le reti di vicinanza e di sostegno concreti nei quartieri, nella scuola e nel mondo del lavoro.