
L’11 gennaio, dopo 24 ore di ricerca, viene ritrovato senza vita il corpo di Oussama Ben Rebha nel fiume Brenta, a 8 metri di profondità. Secondo alcune ricostruzioni, il giovane sembra essersi gettato nel fiume per sfuggire ad un controllo da parte delle forze dell’ordine. Questa tragedia avvenuta a Padova ha ancora tanti punti di domanda, le indagini sono ancora in corso, ma se da un lato i più cinici risolvono sentenziando con un «chi non ha nulla da nascondere non ha necessità di scappare» o i più giustizialisti sorvolano sulla morte del ragazzo, ribadendo il reato di resistenza a pubblico ufficiale, dietro questi fatti sembra esserci di più.
Alle 15.00 del 10 gennaio, Oussama Ben Rebha – 23enne tunisino – si trova con tre amici in un bar. I ragazzi vengono fermati dalla polizia per un controllo di routine, due riescono a fuggire mentre Oussama ed un altro giovane vengono trattenuti. Da quel momento le testimonianze iniziano ad essere contraddittorie. Una ragazza, in videochiamata con uno dei giovani in fuga, dichiara in un’intervista riportata anche dalla stampa locale di aver visto gli agenti picchiare Oussama ed utilizzare spray urticanti. Aggiunge che il 23enne non si è gettato, ma è stato spinto nel fiume; la testimonianza è stata smentita dalla Questura e la giovane rischia una denuncia per calunnia.
Si aggiungono altre voci – come riportato in un successivo articolo sempre del Gazzettino –, stavolta in supporto al corretto comportamento degli agenti: un poliziotto sarebbe stato colpito da Oussama nel tentativo di sfuggire al fermo; lo stesso rappresentante delle forze dell’ordine – secondo la testimonianza oculare di due passanti sul luogo – avrebbe allungato un bastone per permettere al giovane tunisino di riemergere dalle acque del Brenta.
Ad oggi il referto autoptico – l’autopsia è stata eseguita sette giorni dopo il ritrovamento del corpo – dichiara l’annegamento come unica causa del decesso del giovane, ma si attende ancora il risultato di ulteriori accertamenti per verificare la presenza di alcol e sostanze stupefacenti, mentre la famiglia sta richiedendo l’accesso alle immagini registrate dalle telecamere di sicurezza presenti sul luogo.
Il caso di Oussama è sicuramente ancora poco chiaro, lacunoso e ambiguo, ma non sembra affatto essere isolato.
Fares Shgater, 25enne di origine tunisina, è annegato nel Fosso Reale a Livorno la notte fra il 25 ed il 26 aprile 2021, dopo essere stato fermato dalla polizia. Le circostanze che hanno portato al suo annegamento sono poco chiare. Si sa che a seguito del controllo è finito dentro al fiume; gli agenti hanno controllato il corso d’acqua con le torce, senza calarsi nelle acque del Fosso Reale.
Khadim Khole, 24enne di origine senegalese, morto annegato nel Brenta il 4 giugno 2021 anche lui in presenza delle forze dell’ordine. Khadim aveva rubato 100 euro in un minimarket. All’arrivo della polizia il ragazzo si è dato alla fuga e, stando alla testimonianza degli agenti, si è tuffato nel fiume, da cui poi non è riuscito a riemergere. Entrambi i casi, come afferma in un comunicato stampa il Coordinamento Antirazzista Italiano, risultano archiviati, addirittura, nel caso di Khole, come riporta il Corriere del Veneto, un mese dopo il decesso verrà condannato dal Tribunale – non informato dell’annegamento del ragazzo – per resistenza a pubblico ufficiale.
Dinamiche diverse, ma che vedono coinvolti i garanti della sicurezza dello Stato.
Dalla difficoltà dell’ottenimento del permesso di soggiorno fino alla legittimità del cosiddetto racial profiling, il trattamento riservato a persone di origine straniera, soprattutto se non “bianche”, da parte delle forze dell’ordine molto spesso ripropone forme di razzismo istituzionale, duro a morire. Lo ricordano i controlli sistematici da parte delle forze dell’ordine sui mezzi pubblici di Roma, controlli indirizzati alle persone nere nel 2018 su cui The Post Internazionale fece un’inchiesta in collaborazione con Alterego – la fabbrica dei diritti.; lo ricorda una violenta colluttazione con la polizia a Milano nel 2021 quando un gruppo di ragazzi sono stati fermati a seguito di una segnalazione di una rissa avvenuta poco prima del fermo e che, però, non coinvolgeva i giovani suddetti come riportato anche da Il Post. Più noto è l’episodio che ha coinvolto il calciatore Bakayoko, fermato dalla polizia in cerca di un uomo nero con la maglietta verde coinvolto in una rissa con sparatoria tanto di sparatoria annessa come da ricostruzione della Gazzetta dello Sport. Infine il caso di Oussama, che prima dell’annegamento è stato fermato dalla polizia, nonostante non ci fossero evidenze di reato.
Viene da chiedersi cosa determini l’azione o l’inazione degli agenti. Viene da chiedersi se sia di nuovo la linea del colore a determinare il comportamento delle forze dell’ordine e la scelta di procedere o meno a un controllo dei documenti. Viene da chiedersi quanto questo sistema di profilazione sulla base dei tratti somatici e del colore della pelle, lungi da essere un problema d’oltreoceano, sia un vero e proprio dispositivo di controllo sulle persone razzializzate in Italia. Un dispositivo che fa sentire il peso della propria pelle, dei propri lineamenti fino a farli percepire come un pericolo; emblematiche sono le parole di un amico di Shgater che commenta così la vicenda del giovane scomparso:
«Fares aveva il permesso di soggiorno di sei mesi, tra poco avrebbe avuto un lavoro, non gli hanno trovato addosso droga o altro. Se scappava è perché noi tunisini abbiamo sempre paura dei controlli, paura della polizia, paura di essere rimpatriati per un qualsiasi motivo, dopo tutto quello che abbiamo passato per arrivare qua.»
In virtù di ciò la famiglia di Oussama Ben Rebha richiede verità e giustizia e ha lanciato insieme al Coordinamento Antirazzista Italiano una manifestazione svoltasi nel pomeriggio di sabato 28 gennaio a Padova, affinché non si nascondano sotto l’immagine di un incidente, apparentemente casuale, le storture strutturali di un sistema razzista che fa combaciare troppe volte la linea del colore con la linea della criminalizzazione.