
9 giugno, ore 15.00. I seggi si chiudono. Da quel momento scatta l’aggiornamento compulsivo alla piattaforma eligendo del Ministero degli Interni. Controllare l’affluenza, controllare le schede scrutinate. Mandarsi vari messaggi tra attivisti e attiviste nelle varie chat. Iniziano ad uscire i primi comunicati rispetto alle affluenze, quando più di due terzi delle sezioni hanno dato i propri dati al Ministero.
E’ passata una settimana da quel pomeriggio che ha accomunato – forse – tante organizzazioni della società civile, attivisti e attiviste, la rete di amicizie attorno a tutte le persone che si sono spese per i referendum. Ora con uno stato d’animo forse non ancora del tutto freddo, ma sicuramente tiepido, è necessario fare qualche considerazione in merito ai risultati referendari.
Il non raggiungimento del quorum non parla solo di chi si astiene
Un primo commento sul mancato raggiungimento del quorum: l’affluenza su ogni quesito si è attestata su una media del 30,60%. Questo risultato non interroga solamente sui contenuti dei quesiti, che molti definiscono fin troppo tecnici, ma sullo strumento del referendum in sé, soprattutto quando è relativo a materie specifiche, come lavoro e cittadinanza. L’ultimo referendum che ha superato il quorum è stato nel 2011 su nucleare e acqua pubblica. E’ difficile fare un paragone tra quel periodo e la fase attuale, diversa per le forze in campo che hanno proposto il referendum, per i temi – non percepiti immediatamente come parte della propria quotidianità -, per la variazione nella tendenza astensionistica generale negli appuntamenti referendari. Rimane tuttavia da chiedersi – nuovamente – se effettivamente il referendum sia lo strumento adatto per intervenire su temi che dovrebbero essere affrontati dal Parlamento. Certamente lo strumento del referendum è stato utilizzato anche a causa dell’immobilismo del Parlamento, in primo luogo sulla cittadinanza, istituzione per altro progressivamente svuotata e indebolita dall’iperattivismo normativo dei Governi.
Quei no al 35% sulla cittadinanza
Al primo fragore creato dai dati sull’affluenza è seguito il fragore riguardante i dati sulle schede scrutinate: per i primi quattro quesiti sul lavoro i Sì si sono attestati ad un 88% di media contro il 12% di media dei No. Sul quesito sulla cittadinanza i Sì si sono fermati al 65%, mentre i No hanno raggiunto il 35%.
Questa discrepanza rivela come il tema della cittadinanza non sia ancora sentito come importante da tante persone. Questo è dovuto da un lato a come è stato affrontato il dibattito sulla cittadinanza fino ad oggi e dall’altro alla campagna fatta da una certa parte politica che ha parlato di «cittadinanza facile», distorcendo completamente la portata del quesito. Ma questo scarto evidenzia che anche da parte di molte persone progressiste, di sinistra o comunque non conservatrici, l’istanza della cittadinanza può essere sentita come avversa. Luigi Manconi ben analizza come gli elettori interessati alle questioni legate al mondo del lavoro – indennizzi, licenziamenti e sicurezza sul lavoro – possano essere le stesse persone che si sentono in concorrenza con le persone di origine straniera per la medesima posizione lavorativa. Se da un lato la ricucitura di questa separazione spetta molto ai sindacati, dall’altro non si può ignorare come la considerazione delle persone di origine straniera come perpetua alterità minacciosa sia frutto di una forma di razzismo culturale che abbiamo denunciato più volte. E che, ahinoi, attraversa anche quelle persone che potenzialmente potrebbero essere più sensibili al tema.
Silenzio sui temi, riflettori sulle forze politiche
Sebbene non sia un qualcosa solamente connesso al risultato, ma che riguarda tutta la campagna referendaria, il silenzio dei media è un tema. Con la Televisione che continua ad essere una delle fonti di informazione più utilizzate, la mancanza di uno spazio adeguato di discussione e dibattito sui quesiti ha impedito di comprendere anche nelle forme semplificate cosa implicassero i Sì ed i No ad ogni referendum. Nell’ultimo mese di campagna sono stati stimati un totale di 36 minuti giornalieri dedicati al Referendum sommando i palinsesti dei tre principali canali Rai. In quei minuti in cui il referendum è stato nominato bisogna sottolineare come spesso ad intervenire sui quesiti non fossero i comitati promotori, ma gli esponenti dei partiti di maggioranza e – soprattutto – opposizione. Questo ha contribuito a distorcere il significato dei referendum stessi, percepiti o come un voto sul governo o come una questione interna inerente alle correnti di una sinistra che vuole cancellare leggi fatte da lei stessa. Questo tipo di impostazione discorsiva ha trasformato i referendum popolari in referendum partitici, con il conseguente aumento della disaffezione alla politica e una maggiore difficoltà ad entrare in contatto con le persone.
Questi sono alcuni spunti di riflessione che meriterebbero un approfondimento ad una settimana dal referendum. Riflessioni che non cancellano il lavoro e l’impegno portato eventi, le reti create, la breccia che si è aperta ritornando a parlare di cittadinanza. Ma non si può non ricollocare il lavoro messo in campo alla luce di risultati che restituiscono una fotografia se non scoraggiante, quantomeno sfidante. Vi è una base sociale da cui partire, che bisogna considerare anche più ampia se si tiene conto delle tante italiane e dei tanti italiani senza cittadinanza. Proprio pensando a queste persone, bisogna interrogarsi su quale postura avere come collettività davanti a certi numeri, certe discrepanze e certi silenzi mediatici. Prima ancora di decretare in maniera semplicistica se si tratta di una sconfitta o di una vittoria, i referendum hanno scattato la fotografia di un contesto. Guardarla e interrogarsi su come è stata scattata, per quanto possa far male, non deve farci mai distogliere da un obiettivo che è raggiungibile solo se fatto insieme: cambiare quell’immagine.