
Nelle ultime settimane alcune uscite del ministro Valditara hanno di nuovo rimesso in circolazione alcuni slogan, minacciando un futuro di riscossa autoritaria e identitaria nelle pratiche di insegnamento. Si tratta di anticipazioni, in attesa che la commissione da lui istituita l’anno scorso (https://www.ilsussidiario.net/news/programmi-scolastici-valditara-avvia-commissione-revisione-didattica-scuola-arte-musica-le-linee-guida/2700166/) vari le indicazioni sui programmi. La commissione è presieduta da una pedagogista che ha firmato con Galli Della Loggia un volumetto dal titolo Insegnare l’Italia, e sostiene che l’attuale curricolo rinuncia all’identità italiana “in omaggio alle letture globaliste e multiculturali, e ha creato un vulnus psicopedagogico nella formazione delle nuove generazioni” (p. 59). In linea con la tendenza del ministero (e del governo) ad evitare ogni argomentazione inventandosi complotti, tradimenti, tralignamenti, le molte uscite pubbliche dei membri della commissione evitano analisi delle posizioni che osteggiano, da anni ridotte a un feticcio (tricefalo: De Mauro, Rodari, don Milani), senza mostrarsi in grado di discuterle criticamente. È un omaggio al demonio, un vulnus: il linguaggio dell’onnipotenza magica, senza presa sulla realtà.
È difficile contrastare le affermazioni non argomentate (e perciò non falsificabili) di codesti “innovatori”, che del resto ogni volta che parlano ripropongono come modelli i residui di comportamenti messi in questione da decenni di analisi confortate dal dibattito scientifico man mano aggiornato in campo pedagogico, psicologico, linguistico, recepito invece nelle – da loro aborrite – Indicazioni del 2012.
Una posizione strategica in questo tentativo francamente reazionario è affidata all’insegnamento della lingua; anzi, della grammatica. La posizione arretrata del ministero ha da guadagnarci in una situazione in cui chi legge questi attacchi non argomentati raramente va a verificare di che cosa si stia discutendo, in che contesto, con quali obiettivi; in che cosa consistano le Indicazioni attuali; quanto davvero l’insegnamento che ogni giorno si pratica nelle scuole sia sotto il segno dei diabolici tre; come avvenga l’apprendimento della grammatica; sono i dati più elementari per valutare di che si sta ragionando, ma meglio aderire a slogan che ripropongono senso comune da non interrogare e sottoporre a sforzi cognitivi.
Su questo Valditara è di una chiarezza brutale: “La cultura della regola inizia dallo studio della grammatica”, e così sono pronti a ripetere genitori (non tutti), insegnanti (non tutti ma troppi) opinionisti (quasi tutti). Ma che vuol dire? Lo si diceva quando ero adolescente, e si soggiungeva poi che la naja educava le persone; e poi si diceva “la mia serva” e veniva definita “svergognata” una ragazza per futili motivi: il tutto meno di un secolo fa. Cogliere le volgarità di questi modi di dire (che tra loro si tenevano, facevano sistema) ha fatto di molti di noi soldati di leva attenti alle sofferenze altrui e solidali con chi rischiava autolesionismo e suicidi, e più tardi insegnanti che ripartivano da basi di buon senso, e comunque donne e uomini meno volgari, a volte decenti. Ma le battaglie del buon senso contro il senso comune non sono durature, se del buon senso non tiene il carattere sperimentale e innovatore, e non passa attraverso la forza dell’esempio. È questa una delle caratteristiche fondamentali che lo distingue dall’ottuso senso comune, che infatti la maggior parte delle volte è un tentativo di buon senso che ha subito un ottundimento: questione di tenuta.
Può perciò passare per buon senso l’affermazione di Valditara: “La cultura della regola inizia dallo studio della grammatica”. Finché non si hanno dei buoni motivi per chiedersi: che vuol dire cultura delle regole? Che cos’è una regola? perché lo studio della grammatica dovrebbe aiutare ad accettare o riconoscere anche altre regole e la loro augurabilità? Il punto è che la cosiddetta “grammatica” può essere tante cose: può essere costrizione o invenzione, prescrizione o riconoscimento, sofferenza o gioia. Non sono sicuro che nell’affermazione di senso comune agitata da Valditara l’accento cada sulla gioia e non sulla sofferenza, sul riconoscimento e non sulla prescrizione, sull’invenzione e non sulla costrizione: sull’apertura e non sull’umiliazione.
Prendiamo un esempio di regola grammaticale. La prima cosa che si scopre è che confliggono due cose che chiamiamo entrambe regole, ma secondo dei criteri diversi e opposti. Immaginiamo che un docente “faccia grammatica”: può entrare in classe e prescrivere norme secondo un ordine usuale ma rimanendo digiuno della conoscenza delle provabili sequenze di apprendimento.
È accertata scientificamente la sequenza delle regole grammaticali che gli allievi hanno acquisito prima di entrare a scuola. Prima di entrare in classe quanti “insegnanti” ne sono a conoscenza? E se prescrivono una regola, sono sicuri che non sia già posseduta, e magari in forma più solida rispetto alle parole che vengono adoperate per prescriverla? Per anni ho avuto l’occasione fortunata di ascoltare lontani ricordi di scuola di persone ormai anziane che si erano fermate presto nella carriera scolastica. L’aspetto prescrittivo della cosiddetta “grammatica” li aveva feriti in profondo: per loro la grammatica era tutta una serie di prescrizioni (e non di norme assestatesi storicamente sulla base di dispositivi neurobiologici che da pochi decenni incominciamo a conoscere). Prescrizioni negative, cioè divieti: la grammatica era, dichiaratamente, quella che gli aveva insegnato a non dire alcune cose: a me mi, lui soggetto, gli come dativo plurale (proprio quello della riga precedente!), etc. Peccato che questi divieti cozzino contro regole linguistiche più fondate e legittime rispetto alla loro negazione. Chi me lo ha detto, a me? Lui! (provate a dire egli, qui). E tu, cosa gli hai insegnato? gliele hai dette, agli studenti? E, a proposito, perché dette e non detto? Come gliela prescrivo, questa regola, dato che già la praticano senza sbagliare e che nel mio libro di grammatica, quando studiavo, non la riportavano?
Quello che il senso comune di “educatori” mossi da un delirio autoritario odia è ammettere che alcune cose non si insegnano prescrivendole, ma si acquisiscono. I bambini prima di andare a scuola hanno acquisito la costruzione passiva, anche se spesso non ne hanno avuto esperienza (già sui tre anni e mezzo/quattro), poi a scuola non la riconoscono nelle parole difficili adoperate per “spiegargli il passivo”. Sarebbe forse meglio capire quale problema espressivo, testuale e pragmatico ha risolto il ricorso al passivo, migliaia di anni fa, da parte dei popoli indoeuropei. La medesima strategia espressiva si può verificare nei bambini di quasi 4 anni. Certo, lo sappiamo da una decina d’anni, e non tutti lo sappiamo. Ma bisogna continuare a impartire istruzioni cervellotiche per ottenere un risultato che è già stato raggiunto?
E quando i bambini chiedono perché si dice “C’era una volta un re” mettendo il soggetto per ultimo, non tutti i docenti sanno “spiegare” questa regola; se poi la filastrocca continua: “che disse alla sua sposa” si guardino bene dal chiedere perché “un re” e poi non “una regina”. La grammatica, quella vera (e altre regole implicate che per rispetto a improvvisati regolatori del traffico non chiameremo testuali e pragmatiche), fa emergere tutta una serie di comportamenti perfettamente regolati ma imperfettamente spiegati. Ma per molti è difficile capire che le vere regole non vengono impartite ed è inutile ripeterle: che gli rimane da fare?
Eppure non è difficile mostrare a maestre della scuola primaria e docenti della secondaria che è inutile cercare di impartire regole che tutti pratichiamo tranquillamente senza saperle spiegare. Perché si dice: “Ne sono arrivati solo tre” e non “ne hanno telefonato solo tre”? e perché a volte usiamo come ausiliare essere e a volte avere? Tutte le presunte regole escogitate in fretta o con un rasoio approssimativo (essere con gli intransitivi e avere coi transitivi: ma allora, ho dormito?) o moltiplicando la casistica (essere coi verbi di movimento, ma non con passeggiare o camminare, e altre che salteranno fuori a tradimento domani, etc…) non reggono neanche pochi minuti. Ma la nostra mente acquisisce velocemente tutti i criteri per muoversi a proprio agio in un terreno in cui le regole prescrivibili si perdono: e produce senza sforzo regolarità impeccabili. È questa facoltà, creativa e libera, che viene umiliata prescrivendo regole astruse che non fanno presa sulla realtà della grammatica: la quale, lo si voglia o no, vive nella mente del parlante.
Ecco perché il detto di senso comune evocato da Valditara, e accettato, sostenuto, ripetuto da troppe persone non porta da nessuna parte se non se ne percorre la polisemia dei vari elementi. La cultura (fissista o mediatrice?) della regola (prescritta o osservabile?) inizia (perché? e dove continua? c’è una evidenza empirica e una teoria che la rispetta?) dallo studio (in che senso: come sofferenza o come gioia? come ripetizione passiva o creatività curiosa?) della grammatica (intesa come serie di norme già date? e dove? e come? o: praticata come scoperta della realtà linguistica praticata o possibile?). Senza una attività di decodificazione attenta, temiamo che quell’affermazione faccia sistema con “non spiccica parola”, “non partecipa”, “deve integrarsi”, “la serva”, “la svergognata”, etc.
Sottovalutare questo sistema di affermazioni che non si reggono se non sul senso comune più danneggiato è facile, e urge invece prenderlo sul serio e complicarlo, favorendo il passaggio dall’onnipotenza magica di attori sociali immaturi a una matura identità culturale di norme negoziate e responsabili. E recuperando il tempo perduto. Non sarà facile.
Nel frattempo, avrà una buona stampa l’affermazione che si passa dalla cultura delle regole a scuola alla cultura delle regole altrove: ma le regole grammaticali non condividono nulla con altre regole, come quelle riscontrabili nella vita civile o nei giochi da tavolo o nella conversazione. Perché le regole non sono un principio normativo cui obbedire, ma regolarità osservabili (anche nella propria attività, linguistica e non) e perciò praticabili. L’unico senso che può avere lo slogan di Valditara è quello autoritario: chi impara a obbedire alle regole della grammatica obbedirà a regole anche in seguito. Sarà un suddito obbediente. Non passerà dall’osservazione delle regolarità grammaticali all’osservazione di altre regolarità, ma dall’osservanza di regole autoritariamente proclamate in grammatica a quella delle regole della vita civile – intesa come caserma: di quelle di una volta.
A questo clima da anni si sta tornando, e il ministero cavalca il movimento di un veliero che è trasportato da ben altre correnti e trainato da legioni di “educatori”, tutti a tirare la loro piccola gomena, per anni, per ribadire la necessità dell’osservanza di regole che nulla hanno a che fare con quelle grammaticali. Basta entrare in una scuola e osservare come vengono presentate le regole in classe e nei corridoi. Ecco, riportato da uno che nelle scuole ci ha passato decenni, Franco Lorenzoni, il compito che una maestra di una piccola città del nord ha affidato recentemente alle bambine e ai bambini della sua seconda primaria: “Scrivi tre regole IMPORTANTI per stare bene in classe. Poi scrivi tre SANZIONI per chi non rispetta TUTTE le regole. Fai il compito insieme ai tuoi genitori”. Ed ecco un significativo diktat fotografato in una scuola italiana, stavolta in una grande città del Nord: “I professori sono buoni, siamo noi (cerchiato e sottolineato, in rosso, ndr.) a sbagliare”. Se qualcuno pensasse che si tratta di sarcasmo, devo deluderlo: è stato scritto come punizione, su dettatura dell’insegnante. Qualcosa è cambiato da quando per polemizzare con comportamenti autoritari presenti nella scuola facevamo rivivere nei corridoi le scritte del ventennio, che alcuni di noi avevano fatto in tempo a leggere sulla facciata della scuola elementare (mancava, evidentemente, la biacca per cancellarle): “Voi siete il futuro immarcescibile della patria”, “Voi siete l’avvenire imperituro della stirpe”. Ma ora non c’è più molto da ridere.
E gli alunni di stirpe aliena? A tacere di mille altri comportamenti escludenti, è da rilevare che il bambino che viene da fuori è meno competente del senso comune condiviso in un dato posto e in un periodo storico, e perciò svantaggiato rispetto a chi è stato plasmato dall’ambiente. Lo si invita ad adeguarsi, sotto il cartellino ipocrita e violento dell’integrazione (su cui si legga il bel libro di Enrico Gargiulo): un altro risparmio di energie che ha via via accomunato posizioni politiche diverse in un rifiuto del mutamento perché cognitivamente ed emotivamente pesante, opponendole a quelle disponibili ad aprirsi all’inatteso come potenziale portatore di un bene ancora da decifrarsi (Alessandro Ferrara, Democrazia e apertura). Bisognerà imparare a decidere con chi stare: con quelli che si sentono oppressi dalla responsabilità di scegliere o con quelli che invece vi scorgono la libertà.
Giuseppe Faso