Fu omicidio volontario: quattro colpi di fucile sparati con l’intento di uccidere.
Con questa sentenza la Cassazione condanna Antonio Postoriero a 22 anni di reclusione a seguito dell’omicidio del sindacalista 29enne maliano Soumaila Sacko, ucciso il 2 giugno del 2018 nell’ex Fornace Tranquilla a San Calogero (RC).
Una sentenza che arriva dopo 5 anni e si allinea alle precedenti condanne in primo grado e in appello avvenute rispettivamente nel 2020 e nel 2022.
«Unione Sindacale di Base, che da cinque anni lotta perché giustizia sia fatta e che si è costituita parte civile nel processo, esprime soddisfazione per la sentenza e ringrazia gli avvocati Arturo Salerni e Mario Angelelli per il lavoro fatto in questi anni», commenta in un comunicato il sindacato di base in cui militava Sacko.
L’arrivo di questa sentenza su questo caso è importante, soprattutto perché questo omicidio fu emblematico, avendo fatto emergere con più forza nella discussione pubblica la condizione di sfruttamento e disumanità in cui si trovano i braccianti migranti al Sud, condizioni denunciate dallo stesso sindacalista maliano.
Chi era Soumaila Sacko
Soumaila Sacko, all’epoca padre di una bambina di 5 anni, lavorava nella piana di Gioia Tauro; come tanti braccianti viveva in condizioni lavorative di sfruttamento, con ore di lavoro interminabili ed un salario inadeguato. Abitava nella tendopoli di San Ferdinando, la stessa che il 27 gennaio del 2018 fu teatro di un devastante incendio che causò la morte di Becky Moses. Le durissime condizioni di vita e lavorative, insieme al crescente clima di xenofobia e di razzismo lo spinsero ad unirsi all’Unione Sindacale di Base, per lottare per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che troppo spesso nei campi del sud Italia sono in mano a mafia e caporalato.
La morte
Era il 2 giugno 2018 quando Soumaila Sacko, Drame Madiheri e Madoufoune Fofana si trovavano all’ex fornace Tranquilla, intenti a cercare delle lamiere per ricostruire baracche nella tendopoli andata a fuoco cinque mesi prima. Un uomo sulla sessantina scende da una panda bianca ed inizia a sparare svariati colpi di fucile; i tre uomini vengono colpiti; solo Madiheri e Fofana sopravviveranno diventando testimoni chiave dell’accaduto: un proiettile colpisce Sacko alla tempia, causandone la sua morte all’ospedale di Reggio Calabria, poco dopo essere stato ricoverato.
Né il primo né l’ultimo, ma lo Stato dov’è?
L’omicidio di Sacko è solo uno di una lunga lista di morti e aggressioni che si verificano nel sud ai danni dei e delle braccianti.
Gassama Gora, 34 anni, investito nel 2020 mentre tornava da lavoro nella Piana del Gioia Tauro; Joban Singh, 25 anni, si impicca nel 2020, troppo grande il peso dello sfruttamento nelle campagne pontine; Camara Fantama di, 27 anni, muore nel 2021 nei campi pugliesi per il troppo caldo, la sua morte insieme a quella di altri braccianti porterà il divieto in tutta la regione di lavorare nelle ore più calde; Yusupha Joof, 35 anni, morto nel 2022 in un rogo scoppiato in una baraccopoli nel foggiano, Sekou Sankare, travolto da un camion nel 2022. Sono solo alcune storie che hanno coinvolto braccianti stranieri, alcuni esempi fra i pochi di cui si sa il nome ed il cognome.
È difficile dare contezza della gravità della situazione nei campi del Sud Italia, luoghi in cui lo sfruttamento lavorativo si abbraccia al razzismo come strumento di controllo, luoghi in cui tanti lavoratori e lavoratrici diventano invisibili. «È finita la pacchia!» dichiarò nel 2018 il Ministro dell’Interno, ma l’assassinio di Sacko con la sua risonanza ha fatto emergere come la vita di donne e uomini migranti non fosse affatto una «pacchia», ma costantemente a rischio.
«Siamo stanchi di essere sfruttati e ammazzati dagli stessi che di giorno ci obbligano a lavorare senza contratti né garanzie nei campi, a vivere come animali e la sera ci tirano giù come birilli, perché la vita di un africano non conta.» Queste erano le rivendicazioni dei braccianti in uno dei tanti scioperi avvenuti nel 2020, l’anno in cui si aggiunse come ulteriore aggravante delle condizioni dei lavoratori della terra anche la Pandemia.
Eppure queste parole non fanno altro che portarci a domandare con rabbia: dove è lo Stato?
I campi sono proprio quei luoghi in cui lo Stato, da anni, fallisce sia nelle politiche lavorative che di “accoglienza”, lasciando in questo modo piena agibilità alla mafia.
Questa sentenza ci permette di gridare giustizia e stringerci alla famiglia di Sacko, ma è anche l’occasione per tornare a denunciare la presenza di un problema, che nonostante i molti cambi di governo, continua a crescere.