In questi giorni, dai giudici italiani sono giunti due provvedimenti che ci lasciano alquanto perplessi. E’ dell’11 dicembre la decisione del tribunale civile di Roma che ordina a Facebook di riattivare la pagina di CasaPound (e anche il profilo personale e la pagina pubblica dell’amministratore Davide Di Stefano, ndr). Di qualche giorno dopo, è la notizia che il giudice per le indagini preliminari di Siena non ha disposto il sequestro, richiesto dalla Procura, del profilo Twitter del professore universitario Emanuele Castrucci, che aveva pubblicato un post inneggiante al nazismo.
La pagina di CasaPound, lo ricordiamo, era stata oscurata tre mesi fa, assieme ad altri account personali e pubblici legati a movimenti ed esponenti di destra, perché – come spiegava Facebook in una nota ufficiale – “le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia”. Facebook avrebbe giustificato la propria azione non come una scelta “ideologica”, ma con una presa di posizione basata sui “contenuti”: ovvero, l’impossibilità di tollerare i messaggi d’odio veicolati.
Quella del Tribunale civile di Roma è una sentenza destinata a far discutere, che può dare adito a molteplici interpretazioni. E può essere “usata” da una parte del mondo politico, per dimostrare certe tesi e per spostare, ancora una volta, la discussione su altri contenuti.
Queste le considerazioni scritte nero su bianco dal Giudice nella sentenza: “È evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento. Ne deriva che il rapporto tra FACEBOOK e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio come nel caso in esame) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto FACEBOOK, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che FACEBOOK, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente”.
Il Giudice, insomma, attribuisce a Facebook una sorta di “responsabilità sociale”, che va oltre il semplice rapporto tra privati. La sentenza smonta, inoltre, le tesi portate avanti da Facebook in aggiunta alla semplice violazione delle sue policy: il social network avrebbe infatti tentato di dimostrare come CasaPound si fosse macchiata di “contenuti di incitazione all’odio e alla violenza attraverso la promozione, nella pagine di Casapound, degli scopi e delle finalità dell’Associazione stessa”. Secondo il Giudice, invece, “non è possibile affermare la violazione delle regole contrattuali da parte dell’Associazione ricorrente solo perché dalla propria pagina sono stati promossi gli scopi dell’Associazione stessa, che opera legittimamente nel panorama politico italiano dal 2009“.
Il Giudice, insomma, nega che vi siano responsabilità oggettive che, derivate dai comportamenti di eventuali affiliati al partito, possano essere ricondotte alla pagina Facebook, sempre in nome della libertà di espressione.
Il provvedimento, cosi come strutturato dal Giudice, è centrato sulla garanzia del pluralismo politico (con riferimento all’art. 49 Cost.) e della libera manifestazione del proprio pensiero (art. 21 Cost.), senza considerare i limiti stessi di tali principi costituzionali, non bilanciandoli di fatto con il principio di eguaglianza e di non discriminazione.
Facebook ha dunque dovuto ottemperare rapidamente alle disposizioni del Giudice. Anche perché, come riporta la sentenza, il gruppo americano avrebbe dovuto pagare una penale di 800 euro per ogni giorno di ritardo nella riattivazione degli account. Facebook è stato anche condannato alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in 15.000 euro. Questo ovviamente non impedisce al gestore del social network di impugnare ulteriormente il provvedimento: il colosso dei social ha quindici giorni di tempo per opporsi (come previsto dal codice di procedura civile). Lo farà o lascerà cadere anche questa occasione?
Polemiche analoghe, riguardano la decisione del gip di Siena, Roberta Malavasi, che ha rigettato l’ordinanza di sequestro del profilo Twitter di Emanuele Castrucci, professore di filosofia del diritto dell’Università, autore di alcuni tweet ‘pro Hitler’ (era il 3 dicembre, ndr). La richiesta del sequestro del profilo del docente era stata fatta dalla procura di Siena, appellandosi alla legge Fiano e all’articolo 604 bis del codice penale (quello sul “reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, in questo caso aggravato da negazionismo). Il gip ha motivato la decisione sostenendo che “non ci sarebbero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all’odio razziale, ma solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler”.
Solo.
Intanto, per limitare i contatti del professor Castrucci con gli studenti, il rettore dell’Università di Siena ha sospeso il docente dalle sessioni d’esame, provvedendo alla nomina di un sostituto. E la Procura ha annunciato di voler presentare ricorso al tribunale del riesame.
La decisione del gip Malavasi suscita altrettanto sconcerto, tenuto conto che sul profilo Twitter del professore non vi era solo 1 post antisemita, ma decine e decine di messaggi, tali da far pensare a una vera e propria ossessione contro gli ebrei.