“Non dobbiamo sottovalutare quelle parole, quei silenzi, quei gesti di indifferenza, quei discorsi di odio che tendono a normalizzare, a banalizzare il male incipiente e che permettono di radicare quella cultura dell’amico-nemico lasciando una società disarmata di fronte ai fatti più efferati.” Sono alcune delle parole usate dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia ricevuta in audizione al Senato presso la Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. La Ministra, che ha definito la Commissione “un presidio per la dignità della persona e l’integrità fisica di molti”, ha lanciato un messaggio preciso: per la lotta ai discorsi d’odio servono diversi strumenti, non solo la sanzione penale, ma anche la cultura, l’educazione e la giustizia riparativa.
Nel corso dell’audizione, la ministra ha definito allarmante la crescita dei “reati d’odio” insieme al ritorno preoccupante dell’antisemitismo a livello nazionale e europeo: l’Agenzia europea dei diritti fondamentali nel 2020 ha documentato 3.520 casi di antisemitismo denunciati in Europa. Rom, musulmani, migranti ed ebrei sono le minoranze più colpite dalle violenze che hanno un movente discriminatorio. Purtroppo, solo la minima parte delle vittime denuncia le aggressioni subite, sia per diffidenza dei sistemi giudiziari sia per mancanza di protezione e di supporto.
L’ordinamento italiano “condanna sia il discorso d’odio in quanto tale, con l’articolo 604 bis del codice penale che punisce la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica o religiosa, sia i reati aggravati da motivazioni di odio, con l’articolo 604 ter, che invece punisce la circostanza aggravante quando un reato è commesso per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”. A mostrarci però come il mezzo legale sia inefficace da solo per prevenire e contrastare il fenomeno sono gli stessi dati ufficiali disponibili sugli iter giudiziari: “tra il 2016 e il primo semestre 2021, i procedimenti iscritti non superano le 300 unità tanto nella forma di propaganda e istigazione, quanto in quella dell’aggravante. Le iscrizioni sono concentrate in pochi distretti, soprattutto del Nord Italia. E le percentuali maggiori si registrano nelle grandi città, a Roma con il 12,62% fino al primo semestre del 2021, e Milano con il 4,85%. Se poi si guarda ai casi definiti dai gip e dai gup e a quelli che vanno in dibattimento, nell’80% i casi vengono archiviati, e nei pochi rinvii a giudizio prevale la condanna, per circa il 40%, mentre il resto si divide tra assoluzioni e non doversi procedere.” Ne derivano due conseguenze. Il numero di denunce è bassissimo. In secondo luogo, emerge la difficoltà da parte dei giudici di stabilire quando una data espressione si configura come propaganda o istigazione all’odio e di ravvisare il nesso di causalità tra la parola e la commissione di atti di discriminazione o violenti.
Anche per questo la maggioranza dei procedimenti finisce per essere archiviata.
Da qui la sottolineatura sulla complessità di una battaglia che può solo in parte essere combattuta con la repressione: “Questi dati confermano che il diritto penale serve, perché stigmatizza determinati comportamenti, ma non basta. Per contenere questo tipo di fenomeni, oltre al diritto penale serve educare, prevenire, riparare.”
Da qui l’accento posto dalla Ministra da un lato sull’importanza della giustizia riparativa che “guarda al reato come offesa alla persona più che come violazione di una norma” e mira a far prendere coscienza delle conseguenze dell’atto commesso, dall’altro sul ruolo svolto dalle iniziative di prevenzione grazie all’educazione e sensibilizzazione degli utenti della rete e alla maggiore responsabilizzazione dei gestori dei social network che dovrebbero dotarsi di codici di autocondotta e di forme autoregolamentazione.
Tra i molti esempi delle difficoltà incontrate dall’autorità giudiziaria nel perseguire la violenza online, ricordiamo l’esito della denuncia presentata dall’atleta Daisy Osakue a seguito dei numerosi messaggi razzisti o ingiuriosi ricevuti sui social da parte di 120 utenti. Il caso è stato archiviato da parte della Procura nel maggio 2021, benché sia stato riconosciuto il carattere oggettivamente diffamatorio dei messaggi: non è stato infatti possibile identificare con certezza gli autori anche perché Facebook tende a non fornire i dati dei propri utenti alla polizia postale.