di Cinzia Gubbini
Le prove dell’Istituto nazionale di Valutazione del Sistema di Istruzione (Invalsi) stanno diventando piano piano, e tra mille resistenze, un elemento costitutivo della scuola italiana, come d’altronde succede in molti altri paesi.
Eppure l’introduzione del “valutatore esterno” – che comunque è sempre lo Stato e non un privato – è stato accolto con molte critiche e addirittura battaglie “contro”: una parte degli insegnanti italiani si è sempre dichiarata contraria sia a una valutazione esterna che alla “cultura dei test”.
Ma pensare che la scuola italiana sia in guerra con l’Invalsi rischia di essere una lettura unilaterale, sia perché i dati dimostrano che la quasi totalità delle scuole aderisce ai test Invalsi, sia perché è sotto gli occhi di tutti che gli insegnanti più che criticare e basta, si sono attivati per migliorare i test, aprendo un dialogo costruttivo e proficuo sulla valutazione, da molti considerata un fattore non solo indispensabile ma anche positivo.
Così, da quando le valutazioni Invalsi sono iniziate è tutto un fiorire di corsi, incontri riflessioni proprio sulla valutazione – un campo immenso e complicato – su come sia più congruo applicarla, su cosa significhi “misurare” le capacità e le competenze, su quali siano i metodi più interessanti e sull’autovalutazione. Da parte sua l’Invalsi ogni anno “tara” un po’ meglio le prove da somministrare agli studenti, proprio nel tentativo di restituire una fotografia il più possibile fedele del funzionamento delle scuole nel paese.
Una fotografia che permette, tra l’altro, di conoscere un po’ meglio la nostra scuola e di costruirci su un discorso. L’Invalsi d’altronde è nato proprio in seguito all’approvazione della legge sull’autonomia per assicurare una trasparenza nazionale sulla scuola. I dati che ne emergono devono servire per riallineare l’intero sistema, in modo che non esistano differenze tra nord, sud, est o ovest, ricchi o poveri, italiani o stranieri, almeno per quanto possa fare l’istruzione. E sicuramente, a vedere i dati Invalsi, la scuola dovrebbe essere messa in grado di fare molto di più, perché purtroppo in Italia – ma succede anche in altri paesi d’Europa – il “marchio di nascita” è ancora uno dei principali fattori per la riuscita personale nella vita.
Quelli dell’Invalsi, dunque, sono spesso dati che “fanno male”. E’ necessario però dare anche una corretta lettura dei “numeri” che emergono.
Uno dei dati che ha scatenato le più aspre polemiche, ad esempio, è stato quello sugli alunni di origine straniera. I dati infatti parlano chiaro: i risultati sono inferiori a quelli della media degli italiani. E non è una questione di sola cittadinanza, anche se – come vedremo – questo non è un elemento ininfluente: il gap, infatti, rimane anche tra studenti di origine straniera nati in Italia e studenti nati in Italia da genitori italiani. Le prove Invalsi del 2012, somministrate agli alunni di seconda e quinta elementare, prima e seconda media e secondo anno delle superiori – quasi tre milioni di ragazzi – hanno evidenziato che, in generale, lo scarto medio tra studenti di prima generazione e studenti italiani è di 23 punti in meno in italiano e di 16 punti in meno in matematica, mentre fra studenti stranieri nati in Italia e studenti italiani il gap si riduce, rispettivamente, a 16 punti in meno nella prova di italiano e 12 punti in meno nella prova di matematica. Tutte differenze, però, significative. Ma che cosa significano questi dati? E che indicazioni danno per il presente e per il futuro?
Lo abbiamo chiesto a Roberto Ricci, responsabile dell’Invalsi.
I dati Invalsi 2012 hanno presentato significative differenze di apprendimento tra alunni di origine italiana e alunni di origine straniera, che lettura va data di queste differenze?
Il concetto è esattamente questo. Ma non è il caso di allarmarsi. Prima di tutto perché questo dato è comune a tutti i paesi: questi ragazzi, sia di prima generazione – in modo molto più evidente – che di seconda generazione hanno una difficoltà maggiore, soprattutto in italiano, per tutta una serie di fattori del tutto “naturali”: a partire dall’aspetto linguistico, parlano meno l’italiano a casa o per nulla, ad esempio. Non ci deve stupire: le stesse differenze si riscontrano nei ragazzi italiani che, ad esempio, usano in modo molto marcato un dialetto e quindi – allo stesso modo – usano meno l’italiano. Ciò che interessa, invece, sono gli aspetti positivi: il fatto che nelle regioni che hanno una forte presenza di popolazione immigrata quella distanza si riduca è un elemento molto interessante. Prendiamo la prova di italiano, la più difficile come abbiamo visto: è significativo che una regione come il Piemonte ottenga risultati in confronto più positivi – nel senso che si registra una minore differenza tra studenti italiani e studenti immigrati di seconda generazione – in una regione come il Veneto – dove queste differenze ci sono, ma non sono considerate significative – e una regione, che cito solo a titolo di esempio, come l’Abruzzo. Perché dimostra che quando la scuola si “prepara”, perché ha un gran numero di alunni di origine straniera, e quindi si attrezza a quello scopo, allora produce un effetto. E questo non è affatto un fattore scontato. I dati ci mostrano, tra l’altro, che un fattore compensativo indispensabile è la scolarizzazione precoce: i figli di genitori di origine immigrata riescono meglio a scuola quando frequentano anche la scuola dell’infanzia. E’ d’altronde un principio di buon senso: la scuola dell’infanzia, benché la stampa non ne parli mai, è un luogo di apprendimento molto importante, non è solo un posteggio in cui portare i bambini a giocare. Lo è per tutti, figurarsi quando si tratta di alunni di origine straniera. Laddove c’è la frequenza della scuola dell’infanzia, il divario tra le seconde generazioni e gli italiani si riduce fortemente. E questo dovrebbe indurre a stimolare la frequenza della scuola dell’infanzia da parte dei ragazzi che hanno una origine straniera, sia che siano di prima che di seconda generazione. Eppure – ma questi non sono dati Invalsi – sappiamo che rispetto agli italiani la frequentano in misura minore.
Questo probabilmente accade perché manca una politica pubblica…
Sarebbe ingiusto dirlo: perché ci son regioni in cui questa politica è estremamente attenta e articolata. Succede soprattutto nelle regioni del nord, anche perché la comunità straniera è più numerosa. Penso ad alcune aree del Veneto e dell’Emilia Romagna. Sicuramente c’è una parte del paese che viaggia su binari diversi, e non c’entra niente la politica “di palazzo”, visto che accade in regioni che vengono governate da schieramenti politici diversi. Credo che, come poi sempre accade poiché la scuola è un pezzo di società, la politica pubblica sia più attiva e efficiente in quelle regioni dove il tema della scuola dell’infanzia è sempre stato molto forte: qui la scuola dell’infanzia non è mai stata trattata solo come un tema di assistenza, bensì di educazione precoce. Qui, dunque, c’è una maggiore disponibilità a capire che la scolarizzazione precoce per tutti è una scelta strategica per contenere difficoltà successive.
Le scuole con forte presenza di alunni immigrati si trovano sempre a fare i conti con la resistenza delle famiglie italiane, che temono un “rallentamento” del programma e maggiori difficoltà per gli insegnanti. Questi dati sembrano confermare questi pregiudizi.
Non è vero: la prova sta nel fatto che le Regioni con maggiore presenza di alunni stranieri sono anche quelle che hanno i risultati migliori. Anche qui, solo a titolo di esempio: nelle prove di Matematica il Veneto è una regione in cui i risultati sono superiori alla media, la Toscana una regione in cui i risultati sono pari alla media italiana. La Sardegna è una regione in cui i risultati sono inferiori alla media italiana. Ovviamente si tratta di rilevazioni statistiche, che vanno inserite e lette nei vari contesti. Ma qui importa dire che il sillogismo “presenza di alunni stranieri uguale rallentamento dell’apprendimento a scuola” è sbagliato.
Come mai se queste Regioni del nord sono così virtuose mantengono comunque un gap nell’apprendimento degli alunni stranieri?
Prima di tutto sono bravine, non è che siano il paradiso in terra. E poi ripeto: anche in Scandinavia, da tutti considerato il paese con il sistema di istruzione più efficiente, gli alunni con origine immigrata hanno mediamente risultati più bassi. Se pensiamo che queste differenze, dovute a fattori del tutto spiegabili, si debbano azzerare temo che allo stato delle conoscenze pedagogiche sia una pia illusione. Credo invece che sia molto interessante tenere d’occhio come e quanto queste differenze tendano a ridursi nel tempo, e quindi quanto pesi il “fattore scuola”
Abbiamo a disposizione questi “dati di accumulo”?
Non ancora, ci stiamo lavorando. E una rilevazione di tipo longitudinale per cui prima del tutto serve del tempo, ma anche infrastruttura statistica che è in corso di costruzione. L’etica professionale impone quindi di aspettare per poter esprimere un giudizio, ma posso dire che in base a quanto osservato in questi anni sembra che questa riduzione ci sia. I primi dati arriveranno tra due anni, nell’anno scolastico 2014-2015, quando avremo i risultati degli alunni che dalle elementari sono passati alle medie. Ovvio che noi speriamo che quello che ci sembra emergere avrà una robusta base empirica, soprattutto tra ragazzi italiani nati da genitori italiani e ragazzi stranieri di seconda generazione. E’ proprio in questi anni che la presenza degli alunni stranieri si sta consolidando, il nostro processo migratorio è abbastanza recente ed è stato consistente solo negli ultimi 15-20 anni. Quindi è esattamente ora che assistiamo alla presenza numerosa di ragazzi che compiono il loro intero percorso scolastico in Italia. E che questi ragazzi abbiano dei risultati migliori emerge non solo dai nostri dati, ma anche dalle rilevazioni internazionali come Ocse e Pisa.
Queste differenze si mantengono anche a parità di ripetenze e di estrazione sociale?
E’ chiaro che anche qui gli aspetti tendono a intrecciarsi. E’ vero che mediamente questi allievi hanno un background socio-economico e culturale più modesto e anche questo – come sugli italiani – ha una incidenza, anche se non così importante. Sulle ripetenze, invece, non esistono ancora ricerche ad hoc, sarà importante capire se le dinamiche di ripetenza hanno la stessa incidenza e la stessa modalità nella popolazione immigrata e non.
Eppure ci sono scuole con altissima presenza di alunni stranieri che hanno riscontrato dati perfettamente in linea con quelli nazionali, perché l’Invalsi non si incarica di fare una comunicazione più attenta anche su questi casi?
Prima di tutto l’Invalsi ha il divieto assoluto di divulgare dati sulle singole scuole. Quindi non sta a noi farlo – noi possiamo soltanto rendere pubblici dati statistici su campione che ci permettano di restituire una fotografia dei risultati medi raggiunti in una determinata regione o a livello nazionale semmai sta alle singole scuole, se hanno l’interesse di farlo. Quindi personalmente non ho alcun elemento per giudicare: posso dire che a mio avviso una rondine non fa primavera. Ma se assumiamo che esistano queste scuole allora io credo che un buon modo di affrontare il problema è che chi si occupa di aspetti legati alla metodologia dell’insegnamento vada a vedere cosa fa quella scuola.
Dopo qualche anno dalla somministrazione dei test Invalsi, cosa sta progettando l’Istituto?
Noi pensiamo che il tema della misurazione del risultato delle scuole in termini di apprendimenti garantiti sia un principio di democrazia fondamentale: la valutazione non è solo un dovere delle scuole, ma prima di tutto un diritto. E sapere quanto una certa scuola si discosti dai risultati nazionali è un tema molto importante, in primo luogo quando questi risultati risultano essere inferiori alla media sistematicamente. E’ altrettanto vero che fare questo tipo di valutazioni è estremamente difficile perché il risultato di ciò che si va a valutare non dipende solo dalla qualità dell’insegnante. E’ molto più facile essere valutato quando di professione si fa l’ingegnere idraulico: la diga sta su o non sta su? Molto diverso il mestiere dell’insegnante che per questo, spesso a ragione, teme la valutazione: l’insegnante è consapevole che l’esito del suo lavoro è legato a una grandissima quantità di elementi esterni, il luogo di lavoro, il substrato sociale e culturale della zona, le risorse a disposizione, il clima del gruppo di lavoro, i genitori, il dirigente scolastico, e molti altri ancora…Da tecnico credo che i sistemi che stanno emergendo vadano provati, molto laicamente. Ritengo che l’esperienza ci stia insegnando che i sistemi più efficaci siano quelli “misti” cioè quelli che hanno al loro interno elementi di misurazione degli elementi di apprendimento ma anche la valutazione dei processi: capacità del dirigente di organizzare, capacità di lavorare in gruppo, risorse, partecipazione dei genitori. Sembra essere molto incoraggiante la tecnica del valore aggiunto: provare ad andare a misurare, al netto degli apprendimenti, cosa una scuola aggiunge per aiutare gli alunni a migliorare.
Clicca qui per le rilevazioni nazionali 2011-2012