
Il 2 Ottobre alcuni studenti del liceo artistico Caravillani di Roma sono stati aggrediti. Durante la ricreazione, gli studenti – che come tanti giovani si stanno attivando rispetto alla questione palestinese – nel corso di un’assemblea autorganizzata con interventi al megafono hanno urlato “Free Palestine”, scatenando una reazione violenta da parte della comunità ebraica riunitasi nella vicina Sinagoga. Stando alle ricostruzioni sia di RomaToday che del Fatto Quotidiano, un gruppo di cinque persone è uscito dalla Sinagoga iniziando ad aggredire verbalmente e fisicamente i ragazzi e le ragazze che avevano appena terminato la loro assemblea ricordando gli appuntamenti di mobilitazione. La situazione sembrava essersi quietata dopo l’intervento dei docenti del liceo, ma tutto è degenerato al termine dell’orario scolastico. Al momento dell’uscita da scuola un folto gruppo di adulti ha atteso i ragazzi per poi iniziare nuovamente ad aggredirli, come testimoniano alcune immagini diffuse via web. Ad un ragazzo – presente all’assemblea e appartenente alla comunità ebraica del territorio – sarebbe stata strappata anche una ciocca di capelli da parte degli adulti provenuti dalla Sinagoga.
L’atto, la cui gravità è innegabile, ha provocato subito lo sdegno di parte della società civile, che ha espresso solidarietà ai ragazzi e alle famiglie coinvolte, ma non tutte le reazioni sono state dello stesso tenore. Il presidente del Tempio – che secondo delle testimonianze era presente durante le aggressioni, anche se non risulta chiaro in quale ruolo – non si è esposto con una ferma condanna, ma anzi ha dichiarato di essere «costernato per quello che è avvenuto. Contatteremo i genitori del ragazzo, che tra l’altro sono della nostra comunità, e ci scuseremo. Il problema non sono i ragazzi, ma alcuni professori mascalzoni che manipolano la mente degli studenti» e poi ha proseguito dicendo «Assolvo i ragazzi, era responsabilità dei professori vigilare. Ci sono alcuni professori delinquenti che sobillano gli studenti. I ragazzi sono condizionati dalle fake news: se fossero tutte vere le notizie che arrivano da Gaza, andrei anche io a manifestare con loro, ma non è così. Se poi vogliono andare in giro per Roma a manifestare per Hamas, possono farlo, o se vogliono solidarizzare con quella pagliacciata della Sumud… Noi abbiamo sopportato e sopportiamo, ma non è detto che tutti abbiano la stessa capacità di self control». Una poco velata giustificazione della violenza, in un quadrante che è già stato e continua ad essere teatro di aggressioni nei confronti di chi si è mosso a sostegno della Palestina. Qualche ora dopo, in zona Portuense, un medico dello Spallanzani che aveva partecipato ad un flashmob organizzato in sostegno alla Palestina veniva accerchiato da un gruppo di ragazzi incappucciati e colpito con un casco. Come non ricordare poi i vari ordigni esplosivi piazzati davanti all’ingresso del Centro Sociale La Strada a Garbatella, l’ultimo dei quali risalente a al 12 Settembre.
Nonostante ad oggi sia stato siglato un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, non bisogna sottovalutare il clima intimidatorio alimentato da quella parte di società che si pone a sostegno di Israele. In particolare questa tensione è sostenuta da un quadro teorico e propagandistico che rischia di strumentalizzare la nozione di antisemitismo sovrapponendola a quella di antisionismo. Proprio oggi, in un articolo per Il Manifesto Neve Gordon traccia alcune coordinate che aiutano a mostrare come l’accusa di antisemitismo in Gran Bretagna sia stata utilizzata in maniera strategica per silenziare il dissenso nei confronti dell’operato di Israele. Esemplare è il caso del Jewish Chronicle, i cui giornalisti, avviando una serie di indagini nei confronti di studenti e personale delle Università britanniche, avrebbero prodotto un effetto dissuasivo nello schierarsi con la Palestina nonostante tutte le indagini si siano poi risolte in un nulla di fatto.
In un altro articolo, Valentina Pisanty intervistata da Bruno Montesano, alla luce del suo ultimo libro Antisemita. Una parola in ostaggio, analizza come in un contesto come quello Europeo, i cui principi si reggono alla luce della memoria di quello che è stata la Shoa, il termine antisemita sia costantemente strumentalizzato sfruttando quella memoria cristalizzata nelle persone che se ne fanno portatrici, andando al di là del fatto storico in sé. Non negando assolutamente i rigurgiti antisemiti che purtroppo ancora attraversano la società italiana ed europea – soprattutto negli ambienti legati all’estrema destra – è importante ribadire – ricorda Pisanty – la distinzione fra antisemitismo e antisionismo. Da un lato parliamo di una forma di razzismo che rivolge la propria avversione nei confronti della comunità ebraica in quanto tale; nel secondo caso di una posizione politica in contrasto al progetto coloniale dello Stato di Israele e a chi sostiene quello stesso progetto. Ridurre quest’ultima posizione ad odio nei confronti degli ebrei è svilente per il portato storico che la stessa definizione di antisemitismo ha: dall’indicare una delle modalità in cui il razzismo si mostra nella sua strutturalità e sistemicità, diventa una corazza che impedisce ogni critica allo Stato di Israele appiattendo la comunità ebraica stessa ad un’omogeneità politica che non è presente nella realtà. Infatti, in questo modo, non si rende giustizia nemmeno a tutte le persone ebree contrarie al progetto sionista e che a Gerusalemme si scontrano quotidianamente con le rappresaglie del governo israeliano.
In ultima analisi attraverso questa sovrapposizione di significato assistiamo costantemente a dinamiche di gatekeeping – ovvero lo stabilire arbitrariamente chi fa parte di uno spazio o di un gruppo – in cui si è dato il potere a una certa parte della comunità ebraica – in questo caso quella che sostiene il sionismo e che ribadiamo non essere rappresentativa di tutte le persone ebree – di escludere le persone dallo spazio di negoziazione di cosa è un genocidio o cosa è una pulizia etnica. Dinamiche come queste hanno contribuito a forme di minimizzazione di quanto è accaduto e sta accadendo in Palestina, fino a vere e proprie forme di negazionismo.
Sebbene il presidente della Sinagoga vicino al Liceo Caravillani non abbia mai pronunciato la parola antisemitismo, la giustificazione granitica del comportamento dei fedeli del tempio si basa su quello scudo dell’antisemitismo, che trasforma quelli che in quel momento erano i perpetratori di un’aggressione in vittime di un coro, “Free Palestine” appunto. In un momento delicato in cui le polarizzazioni imperano su tutte le questioni, inclusa quella Palestinese, è importante fare alcuni distinguo per evitare di alimentare tensioni che possono molto velocemente tradurre le parole in aggressioni.
Mentre i nostri occhi continuano ad essere puntati su Gaza, sperando che il cessate il fuoco sia un inizio concreto per un processo di pace e giustizia, manifestiamo la nostra solidarietà nei confronti degli studenti e delle studentesse del Liceo Caravillani, e di tutte quelle persone che in queste ultime settimane hanno subito aggressioni per quel desiderio di vedere la fine del genocidio.