Di Annamaria Rivera, Il manifesto, 21 gennaio 2012, pag. 16
Provate a immedesimarvi in quelle madri e sorelle, in quei padri, fratelli, zii che da mesi non hanno più notizie del loro congiunto, partito un certo giorno da qualche porto tunisino verso le coste italiane. Provate a immaginare: è uno di quei giovani coraggiosi che hanno partecipato alla Rivoluzione del 14 gennaio, magari ha ancora sul corpo le tracce degli scontri con la polizia, le cicatrici di colpi sparati dai cecchini nei giorni della rivolta che ha rovesciato il regime. È partito dopo la fuga del dittatore perché per lui, come per gli altri insorti, la rivoluzione per il pane, la dignità e l’uguaglianza era anche per la libertà: anzitutto libertà di movimento e di circolazione, come per tutti i giovani.
Si è imbarcato insieme ad altri su un vecchio peschereccio rabberciato perché non ne poteva più di disoccupazione, lavoretti precari e umilianti, vita miserabile in un certo quartiere popolare della Grande Tunisi. Oppure in una borgata dalle parti di Thala, Kasserine, Sidi Bouzid o Gafsa, ossia il cuore della Tunisia più povera, emarginata, combattiva, giusto quella in cui si è accesa la scintilla che ha poi incendiato la prateria. Forse non sopportava più d’essere un peso per la sua famiglia, lui che avrebbe dovuto mantenerla. Forse gli era divenuto intollerabile non poter dare un futuro a se stesso e al legame con la ragazza che amava.
«Coloro che bruciano»
È salito su quel peschereccio malconcio perché non tollerava più d’essere ancora considerato un niente, lui che insieme ai suoi compagni aveva sfidato le milizie armate del regime. Si è imbarcato, consapevole dei rischi, perché ha pensato che perdere la vita in mare è comunque meno peggio che essere costretto a farsi torcia umana per poter gridare pubblicamente la propria disperazione e farla finita con un’esistenza senza nome e senza senso. È uno di quegli harragas («coloro che bruciano») che preferiscono bruciare carte d’identità e frontiere piuttosto che auto-immolarsi col fuoco. Cosa che continuano a fare in tanti, soprattutto giovani laureati-disoccupati: torce umane si accendono quasi ogni giorno, in Marocco, in Algeria, perfino nella Tunisia post-rivoluzione.
Di sicuro ha pensato che la durata di una vera rivoluzione è ben più lunga del tempo della giovinezza e dell’urgenza di bisogni esistenziali. Probabilmente ha intuito che Mohamed Bouazizi, mentre diventava l’Eroe-Martire, l’icona della rivoluzione esibita ovunque, perfino sulle copertine di riviste patinate, era già stato tradito dagli usurpatori della rivolta popolare. Coloro che, andando al potere, avrebbero presto dimenticato le ragioni per cui Bouazizi si era immolato, cioè le sue stesse ragioni: giustizia economica e uguaglianza sociale. Forse lo ha intuito confusamente, ma non ha sbagliato. Non è lui, il nostro harraga, il traditore della rivoluzione, come cianciano troppi benpensanti tunisini – se ne trovano nelle nuove istituzioni e nei partiti, anche di sinistra – intossicati dalla propaganda del vecchio regime. Il quale aveva seminato disprezzo per i «clandestini», promulgato leggi ingiuste per reprimerli, realizzato infami accordi bilaterali per compiacere i partner politici dell’altra sponda in cambio di protezione, sostegno e vantaggi economici.
Tra lager e abissi
Chissà se il nostro harraga è vivo o morto. Chissà se è sepolto in qualche lager di Stato italiano o negli abissi del Mediterraneo. Ora moltiplicate il suo caso ipotetico per cinquecento, forse addirittura per mille, e vi renderete conto delle dimensioni della tragedia. Provate a figurarvi la disperazione di qualche migliaio di parenti dei dispersi, che reclamano, finora senza esiti rilevanti, l’attenzione delle autorità tunisine e italiane. Se ancora non siete riusciti a partecipare e a commuovervi, guardate questo video: www.youtube.com/watch
Se avete fatto finora quest’esercizio di empatia, vi consolerà sapere che i familiari dei dispersi non sono più soli, per fortuna. Alcune associazioni italiane e tunisine si sono coordinate e hanno realizzato iniziative comuni: appelli, sit-in e proteste in Tunisia e in Italia. Così ha preso slancio la campagna «Da una sponda all’altra: vite che contano».
Il muro di omertà
E l’appello «Immagini, tu?» (http://www.storiemigranti.org/spip.php?article995), promosso da un gruppo di donne tunisine e italiane, è riuscito a raccogliere finora almeno 1300 firme. Grazie a tutto questo, il muro di omertà o indifferenza va incrinandosi. E anche i media italiani mainstream iniziano a interessarsi alla vicenda dei migranti tunisini dispersi e delle loro famiglie.
Non abbiamo notizie, invece, di sussulti rilevanti da parte del governo di transizione tunisino. Né finora ha reagito con atti tangibili il governo italiano, quello della discontinuità con Berlusconi-Maroni. Ai due ministri degli interni e degli esteri è stata inviata una lettera (http://leventicinqueundici.noblogs.org/?p=520) in cui si ripropone l’istanza che i familiari dei dispersi continuano a rivolgere alle istituzioni del loro paese e a quelle italiane: che si istituisca una commissione d’indagine, che si mettano a confronto le impronte digitali conservate nei data-base dei due paesi, così da avere qualche certezza sulla sorte dei loro cari.
Affinché a ognuno di loro, vivo o morto che sia, venga restituita la sua biografia singolare. Singolare come è e come sempre è stata per chi li ama. Singolare come fu anche pubblicamente allorché si rivoltarono per non essere più quantità di vite senza nome e senza senso.