di Cinzia Gubbini
Roger ha solo 16 anni. Capello impeccabile, viso scolpito e le idee chiarissime: “Mio padre mi ha trasmesso la passione per il canto, e ora ci sto provando. Ho anche provato con la recitazione, ma cantare mi piace di più. E se andrà male, aprirò un locale”. Insomma, è già tutto programmato. Non c’è spazio per i perditempo. Ma la musica, la recitazione, in generale l’arte da palcoscenico sono prospettive appetibili anche per gli adolescenti di oggi che – rispetto a quelli di ieri – hanno certamente maggiori capacità (e necessità) di “andare al sodo”. Così è come se per i ragazzi contemporanei la praticità del trovare un lavoro e la voglia di sognare l’impossibile trovassero un connubio accettabile nello spettacolo. Cantare, suonare, ballare, recitare. Forse, diventare una star. Sennò, aprire un locale. Oppure, diventare piazzaiolo e nei giorni liberi ballare la breakdance oppure studiare il piano.
Mondi possibili che si intrecciano tra il primo e il secondo piano di MaTeMù: il centro ricreativo del Cies -onlus romana che si occupa da anni di educazione interculturale e di migrazioni -che ha aperto i battenti a Roma tre anni fa, provando a diventare un punto di incontro per gli adolescenti di seconda generazione. Un po’ ci è riuscito, un po’ è stato travolto – come è giusto che sia – dagli eventi degli ultimi anni che hanno trascinato sulle coste italiane migliaia di minori stranieri non accompagnati.
Ogni municipio, a Roma, ha il suo centro di aggregazione giovanile. Questo, però, è diverso dagli altri: è l’unico il cui progetto si rivolge esplicitamente agli adolescenti cresciuti in famiglie di origine straniera in Italia, con l’obiettivo “secondo” di riuscire a mescolare italiani e stranieri. Per questo – dicono i suoi coordinatori – è un centro ricreativo un po’ più bello degli altri: non vive solo di contributi pubblici, che pure ci sono, ma è libero di presentare progetti per i Fondi europei, o di collaborare con le Fondazioni. In ogni caso non naviga nell’oro, anche se il suo calendario delle attività è strapieno e entusiasmante: lezioni di ballo, di musica, di canto, di fotografia. Una bellissima sala da ballo, dove vengono anche le ragazze filippine a preparare le danze per la festa dei diciotto anni; una attrezzata sala di registrazione; una sala internet; una per gli strumenti musicali. Più, ovviamente, l’immancabile biliardino. E adesso anche lezioni di italiano per i minori non accompagnati, almeno due volte a settimana. Tutto questo è reso possibile soprattutto grazie all’impegno di diversi volontari, artisti che mettono a disposizione la loro arte per insegnare ai ragazzi come si fa.
Roger, che è di origine filippina, sta appunto ascoltando la sua prima incisione “semi professionale”: una cover arrangiata da Gianluca Panaccione, l’insegnante di rap, che si presta anche al mixaggio. Gli dà consigli: “Dovresti migliorare la tua pronuncia dell’inglese”, dice per esempio. Roger ascolta attento. A un orecchio profano la canzone sembra perfetta. Ma lui non è tanto convinto. La “concorrenza” è agguerritissima, e lui dice di non essere neanche sicuro di mettere questa prima incisione su Youtube. Sicuramente, racconta, la farà sentire alla sorella, che ha una sua band musicale. E anche lui vorrebbe provare con il rap, come già fa suo fratello piccolo, che ha solo 13 anni. 13 anni? “Sì – dice Gianluca Panaccione, che ha visto crescere decine di piccoli rapper a MaTeMù – c’è chi comincia a 13 anni anche se, al contrario di quanto si può pensare, il rap non è facile: forse ci vuole meno studio, ma molta faccia tosta e una sicurezza che raramente gli adolescenti hanno”. Le lezioni di rap, comunque, sono tra le più frequentate: “Con il rap si possono dire le cose, raccontandole, tirare fuori quello che hai dentro – spiega ancora Panaccione – per questo viene scelto, ma solo da chi ha già sa cosa vuole dire, e soprattutto ha la voglia e la maturità di affrontare il pubblico. Perché con il rap sei solo tu e la tua voce. Non a caso – continua Panaccione – ed è capitato anche a me, al rap si arriva spesso attraverso percorsi tortuosi, magari prima si passa per uno strumento, o per la danza, come la breakdance”. Ma che cosa raccontano i giovani rapper di MaTeMù? Riscoprono la forza del rap “originario”, quello di protesta? “Raro, dice Panaccione, qualcuno lo fa”, e mette di sottofondo un rap cantato in inglese da un ragazzo nigeriano, in cui racconta il suo viaggio verso l’Europa e tutto quello che ha dovuto subire. Dal suo paese è dovuto scappare proprio perché voleva fare il rapper, e pare che ora stia avendo un buon successo nelle dance hall romane. “Ma il più delle volte – racconta Panaccione – i ragazzi tirano fuori testi intimisti, in cui raccontano dei loro problemi adolescenziali”.
Molti ragazzi che hanno frequentato le lezioni di musica di MaTeMù hanno anche messo su una band con cui si esibiscono nei locali: la MaTeMusik band. Nel calendario delle lezioni se ne sta per aggiungere una nuova, per la gioia di molti: il sax. E tra le novità ci sono anche due ultimi “acquisti” di pregio tra i volontari-artisti che mettono a disposizione la loro arte: Carlo Conti, sassofonista, dei Rosso Malpelo e Sara Dietrich, cantante che collabora con gli Ardecore.
MaTeMù è un posto dalle grandi potenzialità. Ma è una barca in mezzo al mare, per usare una metafora che ha molto a che fare con le migrazioni, e le onde a volte sono altissime. Una più alta di tutte che ha messo a rischio la nave è stata l’ondata delle Primavere arabe nel 2010: “Sono arrivati centinaia di ragazzi stranieri non accompagnati, in grandi difficoltà – racconta Gianluca Tomei, il vicecoordinatore di MaTeMù – non sapevano parlare italiano, avevano problemi enormi con i documenti. Abbiamo necessariamente messo in piedi anche un piccolo servizio legale. Ci siamo accorti della mostruosità della nostra legge che mette un minore davanti alla ‘maledizione dei 18 anni’. A quell’età – spiega Tomei – devono per forza trovare un lavoro e abbandonare la loro formazione”. La maggior parte viene inghiottito dal gorgo dell’irregolarità. Ma MaTeMù per alcuni di loro ha rappresentato un’ancora di salvezza, come per quel ragazzo afghano che aveva scoperto proprio grazie al centro giovanile la sua grande passione per la musica. A diciotto anni ha trovato un lavoro da pizzaiolo. “Al centro non lo vediamo quasi più – dice ancora Tomei – è libero solo il giovedì pomeriggio, e non c’è la lezione di musica che seguiva. Però ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato, ha trovato casa e per prima cosa si è comprato un pianoforte”.
Triste che non possa seguire la sua lezione di musica. Ma nelle stanze di MaTeMù scorre la vita vera, e anche dosi da cavallo di realismo: “Triste perché? Ha avuto una grande fortuna, invece – dice Alessandro Bernardini, che lavora nel settore educazione e formazione del Cies – la maggior parte di loro non riesce a trovare un lavoro. Per noi è un bene quando non li vediamo più perché si sono emancipati, hanno trovato lavoro, hanno cambiato vita. Vuol dire che sono cresciuti”. E il fatto che nelle stanze di MaTeMù ci siano molti giovani migranti di “prima generazione” e meno ragazzi di “seconda generazione”? “Anche questo è vero solo in parte – continua Alessandro – gli adolescenti sono mutevoli, e si muovono con il loro gruppo. Se c’è una lezione che piace, un maestro che piace, funziona il passa parola. Adesso per esempio di là stanno facendo lezione di chitarra un ragazzino italiano e il suo compagno di scuola di origine straniera. Nell’altra stanza, invece, ci sono venti ragazzi tunisini che fanno lezione di italiano. Ovvio che nel periodo di massima affluenza di minori stranieri non accompagnati qualcuno possa essersi spaventato, e la composizione è un po’ cambiata. Ma poi le cose mutano di nuovo. L’importante è mantenere alta l’offerta e la porta aperta a tutti”.
Per essere alta, l’offerta lo è: l’anno scorso il centro ha anche allestito uno spettacolo teatrale per la regia di Gabriele Linari dal titolo “Altrove, città e invisibili”. Rappresentazioni? Due, una aperta al pubblico e una per le scuole. “Purtroppo i teatri costano tantissimo – spiega Dina Giuseppetti, la coordinatrice di MaTeMù – non possiamo permettercelo”. Possibile che non si riesca a trovare un teatro gratuito per uno spettacolo ispirato alle Città invisibili di Italo Calvino? “No, non si trovano – dice Dina, senza particolare indignazione – le cose stanno così, e noi siamo fortunati. In giro c’è gente ben più eroica, che porta avanti centri ricreativi con una stanzetta a disposizione in piena periferia”. Realismo uber alles, dicevamo. Ma possibile che nessuno possa offrire un teatro gratis? Lo spettacolo si può vedere in dvd. Ed è bellissimo.