“Secondo i dati del Ministero dell’Interno, risultano essere attualmente 293 gli stranieri trattenuti nei cinque centri di identificazione ed espulsione funzionanti”. Basterebbe questa frase a condensare la situazione attuale del sistema italiano dei Cie, fotografata dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato nel rapporto presentato martedì 26 febbraio. Un’analisi che arriva dopo diciotto mesi di indagine conoscitiva, e che mostra “numerose e profonde incongruenze riguardo alle funzioni che dovrebbero svolgere, e ciò in ragione di rilevanti insufficienze strutturali, nonché di modalità di trattenimento inadeguate rispetto alla tutela della dignità e dei diritti degli interessati”. In generale, quello che emerge con limpidezza dal rapporto è quello che potremmo definire un processo di ‘autosmantellamento’: basta osservare i dati. Nel 2012 sono state 7.944 le persone transitate nei Cie, 6.016 nel 2013, 4.986 nel 2014. Per quanto riguarda le persone rimpatriate, sono state 4.015 nel 2012, 2.749 nel 2013, 2.771 nel 2014. Sul numero delle presenze all’interno dei Cie la Commissione confronta il numero rilevato nel febbraio 2014 – 460 su una capienza di 842 posti- e nel febbraio 2015 – 293 presenze su una capienza di 753. Questo per quanto riguarda la presenza nei Cie: vale però la pena domandarsi quali. Perché “attualmente, degli 11 Cie italiani solo 5 sono quelli funzionanti: Bari, Caltanissetta, Roma,Torino, Trapani. Sono invece temporaneamente chiusi, per lavori o perché in attesa della definizione delle procedure di aggiudicazione della gestione, i Cie di Brindisi, Crotone, Gorizia. Il Cie di Trapani-Serraino Vulpitta è in via di riconversione in Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Mentre i Centri di Bologna e di Milano dal mese di agosto 2014 sono utilizzati per la prima accoglienza”.
I dati diffusi dalla Commissione si riferiscono all’efficacia del sistema Cie rispetto al suo obiettivo dichiarato, ossia l’identificazione del cittadino straniero privo di regolari documenti, e la sua conseguente espulsione. Procedimento per cui “in media sono sufficienti 45 giorni”, stando a quanto ha dichiarato il personale degli uffici immigrazione delle questure con cui la Commissione è entrata in contatto.
Non si capisce allora perché durante gli anni i tempi siano stati allungati, passando dai trenta giorni del 1998 ai 18 mesi del 2011 – e poi nuovamente scendendo a 90 giorni, grazie a un emendamento dei senatori Manconi e Lo Giudice alla legge Europea 2013-bis, approvata il 30 ottobre 2014. Il motivo lo chiarisce lo stesso Presidente della Commissione Luigi Manconi durante la presentazione del rapporto, attribuendo ai Cie “un impianto intimidatorio” che lo stato mantiene in chiave “puramente simbolica”.
Un impianto da smantellare, perché costoso, inutile e dannoso: “la forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti provoca situazioni di tensione altissima: vi si trovano ad esempio persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che [..] sono diventate irregolari”, ad esempio dopo la perdita del lavoro, oltre a “richiedenti asilo che hanno potuto formalizzare la propria domanda solo dopo aver ricevuto un provvedimento di espulsione”, e “ex detenuti che, scontata la pena, sono stati trasferiti nei Cie in attesa di identificazione”, in una sorta di “pena accessoria non prevista dal nostro codice” come sottolineato da Manconi. Situazioni che “possono essere sanate e definite in maniera più veloce rispetto alle procedure attualmente previste”.
Le alternative infatti ci sono, solo che non vengono applicate. “Per chi è destinato all’espulsione dopo l’esecuzione della pena in carcere va resa operativa la disposizione prevista dal decreto Cancellieri del dicembre 2013”, ossia l’accertamento dell’identità all’interno degli istituti penitenziari. In presenza di un figlio minore, “prevale il principio dell’unità familiare”. Senza contare i molti casi di persone cresciute in Italia e trattenute, perché prive di documenti per i motivi più diversi (ad esempio perché, al raggiungimento della maggiore età, non sono riuscite ad ottenere il permesso di soggiorno perché prive di un lavoro regolare).
La Commissione ha inoltre sollecitato il governo a “rivedere i criteri di assegnazione della gestione dei Cie, affidando a un ente gestore unico su scala nazionale tutti i centri attraverso un’unica procedura a evidenza pubblica”. Non solo: è necessario “modificare i criteri di assegnazione delle gare d’appalto, valutando non solo l’offerta economica”, criterio che porta a affidare le strutture a chi fa l’offerta più bassa. A questa revisione andrebbe accompagnato “un periodico monitoraggio”. Tutte misure volte a migliorare il sistema Cie e garantire all’interno delle strutture la tutela dei diritti umani, attualmente quotidianamente calpestati. Un percorso da portare avanti in attesa di un totale smantellamento: si possono adottare infatti “altri mezzi” per il controllo delle persone senza documenti, in un processo il cui esito è “lo svuotamento dei Cie”, come sottolinea la Commissione.
Il rapporto della Commissione conferma quanto denunciato da molti dossier pubblicati da ong e associazioni, in cui si esplicitano i costi considerevoli di un sistema inefficace e inumano (vedi il dossier di Lunaria Costi disumani) e le sistematiche violazioni dei diritti (vedi il dossier di Medu Arcipelago Cie).
Ciononostante, “il governo non abolirà i Cie, a causa della larga composizione dell’attuale maggioranza”: lo ha dichiarato il sottosegretario all’interno Manzione durante la presentazione del rapporto. Nelle parole di Manzione, “il Cie non è il fine, ma il mezzo per distinguere chi è regolare da chi no”. Un mezzo che non funziona, come dimostrato, ancora una volta, dal rapporto della Commissione. E che, tra l’altro, viene portato avanti nella totale noncuranza della dignità dei trattenuti.
“Quando il Governo ammetterà che questo sistema è inutile e fallimentare e deciderà di attuare le misure alternative alla detenzione amministrativa?” chiede la campagna LasciateCIEntrare. Evidentemente, il governo ritiene ancora utile mantenere un “impianto simbolico intimidatorio”.
Qui il testo del rapporto della Commissione diritti umani.